martedì 7 novembre 2017

In treno. Appunti di viaggio #2novembre

Un cadeau, un augurio #thanksto Antonella
21 mesi fa, oggi, caricavo musica sul mio tablet. Oggi, dopo un anno e nove mesi, per caso mi accorgo di questa concordanza di date, di questa cifra tonda che si compie e chiude. Mette un punto a un lungo periodo che 21 mesi fa ancora non sapevo precisamente a cosa mi avrebbe portato e oggi, guardandomi indietro, per nulla tornerei indietro. Un arco temporale abbastanza lungo che però, a ben vedere, racchiude più cose di quelle che avrebbe potuto contenere. Un tempo in cui ho fatto, vissuto, affrontato tante tantissime troppe cose.
Una fiacca stanchezza si sta facendo ora spazio, con quel leggero mal di testa che avanza sopra l'arcata delle sopracciglia, fin sulle palpebre, per giungere alla tempie e lì dimorare. Sono stanca di una stanchezza atavica, che pone le basi in un tempo anteriore al 2 febbraio 2016, ma questo non è ancora il tempo per sviscerare quella stanchezza.
Per ora mi preparo a questa piccola boccata di ossigeno, prima di tornare a respirare.

mercoledì 1 novembre 2017

Memories #3

...e chi lo dice che novembre sia mese mortifero? Spulciando tra le parole del passato emerge un post scritto qualche anno fa, un giorno di novembre in cui leggevo (per l'ennesima volta) una delle più belle scene mai scritte da penna intinta nell'intelletto umano.
La penna è datata 1813, l'intelletto femminile.
Parole che io vorrei sentirmi dire e che sono tratte da Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen.

Elizabeth e Darcy
...
(Elizabeth) - "Quando è cominciato?" - domandò - "Posso ben capire che, una volta nato, il sentimento abbia preso facilmente piede: ma che cosa ti ha fatto innamorare, inizialmente?"
(Darcy) - "Non saprei dire l'ora, il luogo, lo sguardo o le parole che segnarono l'inizio: accadde tutto troppo tempo fa. Comunque, mi ci trovai nel mezzo prima di sapere come fosse... cominciato"
- "Alla mia bellezza, avevi ben presto saputo resistere e, quanto alle mie maniere, quanto al mio comportamento nei tuoi confronti, spesso confinava semmai nell'incivile: non ti ho mai rivolto la parola senza desiderare di darti un qualche dispiacere. Dimmi sinceramente, ora: mi ammiravi per la mia impertinenza?"
- "Per la vivacità della tua mente, senza dubbio"

venerdì 27 ottobre 2017

Sul 451 #storiedibus

Questo il carrello con cui mercoledì 25 ottobre giravo per Roma
La signora del 548 è tornata. La sua nuova apparizione avviene in un giorno di saluti, giorno di antivigilia, di partenze e ripartenze. Avviene su un bus diverso, quel 451 di antica percorrenza che segna un tragitto diretto verso la meta.
La sua voce giunge alle mie orecchie mentre i miei occhi sono rivolti all’insù, a scorgere le imposte di un ultimo piano assolato su viale Togliatti, provando a immaginare la vita che si cela dietro quelle imposte baciate dal sole, a pochi passi da Cinecittà.
“Conosco questa voce...” mi dico, mentre mi giro e cerco di collocarla nello spazio del mezzo pubblico e nel tempo di questa mia vita romana. È di spalle, vedo solo una porzione di capelli e un carrello della spesa, blu navy a pois bianchi. Mi sembra di ricordare quel tono, anche se le parole pacate lasciano un dubbio al mio tentativo di far combaciare i pezzi del puzzle. Poi, la frase che fa scattare l’ingranaggio: «Aò, ho buttato tre buste de monnezza sta-matina, laggente me stava a guardà… ma che c’hanno da guardà, n’a fanno ‘a monnezza? S’a magnano?».
Mentre mi avvicinavo alla porta di uscita l’ho vista: era lei, con quell’espressione di corrucciata quotidianità, con le mani esili e i pantaloni-tuta di cotone, la piccola frangia a coprire una porzione di fronte e quelle labbra farlocche che emergono come un canotto sul bianco ovale del suo viso.
Arrivederci giovane signora del bus: mentre vado via sorrido notando che, come lei, anche io oggi giro per Roma con un carrello della spesa.

Click

Questo il mio orizzonte alle 3.29 del 22 ottobre 2017

Un click per interrompere, un click per iniziare.
Per la prima volta ho fatto partire una canzone in radio, in diretta. È una lunga notte: fuori il mondo sembra pacificato, qui è c’è una gran calma e la voce di David Bowie fluttua su tutto questo silenzio. L’odore della birra scura dal sapore di caffè riempie l’aria racchiusa nella circonferenza che ha come raggio la distanza tra il bicchiere e il mio naso.
Nello schermo che registra ogni picco del suono della musica trasmessa, c’è un riquadro in cui si vedono i microfoni, le cuffie, la postazione di chi da questa stanza di legno chiaro parla nel cuore della notte a quanti sono svegli, a chi non riesce a dormire, a chi lavora, a chi vaga senza una meta.
A chi si mette in ascolto, prima ancora di sentire, per accogliere parole donate al mondo.

3.29, calma e pace. Mi guardo attorno, scruto, tra poco forse dormirò un po’.
Piccole cose che mi fanno stare bene.

lunedì 16 ottobre 2017

Le stelle che brillano sempre


Oggi è uno di quei giorni in cui guardo il calendario con il cuore prima ancora che con gli occhi, perché ci sono giorni che sono impressi più di altri e sono destinati a restarlo sempre. 

È capitato poi che, mentre leggevo tra le righe di cose scritte in passato, ho ritrovato una cosa scritta il 29 agosto del 2010, nelle calde ore pomeridiane (erano le 16.31), quando l’estate non era ancora finita ma le mie ferie si, e mi trovavo a fare i conti con esperienze vissute e desideri in divenire. Ma in quei giorni pensavo anche ad altro. Erano i giorni in cui leggevo tutto d’un fiato Il piccolo principe e ogni pagina sembrava suggerirmi qualcosa. Da nove mesi vivevo a Roma e il mese delle stelle cadenti mi stava consegnando inattese novità.

Oggi se ripenso alle stelle che ricopiai tra i miei appunti più di 7 anni fa, penso a una stella lontana anni luce che continua a brillare. Brilla negli occhi di una giovane donna a Milano, cresciuta prima del tempo, che consegna ogni giorno una rinnovata – seppur a tratti difficile – voglia di vivere al suo meraviglioso bambino.


Le stelle (Il piccolo principe)
29 agosto 2010 alle ore 16:31
"Gli uomini hanno delle stelle che non sono lo stesse.
Per gli uni, quelli che viaggiano, le stelle sono delle guide.
Per altri non sono che delle piccole luci.
Per altri, che sono dei sapienti, sono dei problemi.
Per il mio uomo d'affari erano dell'oro.
Ma tutte queste stelle stanno zitte.
Tu, tu avrai delle stelle come nessuno ha..."
"Che cosa vuoi dire?"
"Quando tu guarderai il cielo, la notte,
visto che io abiterò in una di esse,
visto che io riderò in una di esse,
allora sarà per te
come se tutte le stelle ridessero.
Tu avrai, tu solo, delle stelle
che sanno ridere!"

(Antoine de Saint-Exupery)



domenica 8 ottobre 2017

Il risotto al radicchio di Carmen

Il risotto al radicchio di Carmen
Galeotto fu il risotto e chi lo mantecò. È questo quello a cui pensavo oggi, a ora di pranzo, mentre per casa aleggiava un profumo delizioso di risotto al radicchio.
Facendo mente locale e un calcolo che è stato un vero e proprio salto nel tempo, io e la mia amica Carmen abbiamo quantificato l’arco temporale che da un risotto a un altro ci ha fatto pranzare insieme oggi, dopo 10 anni*.

Nel 2007-2008 ero alle prese con tutte le esperienze umane, universitarie, lavorative e parrocchiali, formative, curriculari ed extracurriculari, che riuscissi a mettere insieme in 24 ore. E a volte 24 ore sembravano non bastare. Dai diversi luoghi della vita mia e di quella delle persone della mia vita, a un certo punto della giornata un vortice di storie si riuniva in un luogo della mia città, Salerno, per mangiare insieme. A volte era casa mia, e magari eravamo solo io e il mio amico Ilario, davanti a lagane e fagioli e lagane e ceci, dopo che la lavanderia “Ondablu” aveva terminato l’ultimo turno. Ma il luogo per antonomasia in cui ci ritrovavamo era proprio casa di Ilario, Lallo per gli amici (e altri nomi improponibili quando si sarebbe trasferito a Londra…), il primo tra noi ad essere andato a vivere da solo. A casa di Lallo sono stati narrati fatti inenarrabili e storie tragicomiche; sono nate storie di una notte e storie di una vita. Ci sono state alcune delusioni. Ma, più di tutto, sono nate nuove, belle, sincere, autentiche, grandi amicizie.

L’amicizia è sacra. Gli anni della mia infanzia sono legati indissolubilmente ai ricordi degli amici cari. L’asilo, le scuole elementari; le lunghe e caldi estati, profumate di crema solare e pizzette; le scuole medie e le prime liti, le scuole superiori e le grandi domande. Per me gli anni della piccolezza in crescita sono mia sorella di sempre Ilaria e mia sorella di vita Miki, mio fratello Francesco - il piccolo di casa - mio cugino Andrea, Mattia e Giovanni,  e poi le “prime volte” che sono seguite. Queste persone hanno “fatto la base” delle mie relazioni, un po’ come quando esci a bere qualcosa con gli amici e mangi per farti la base per affrontare e sostenere tutto, per non farti cogliere impreparato. Senza di loro non sarebbe venuto il resto o, semplicemente, le cose non sarebbero state come sono state. Così, quando sono arrivati gli anni di “quando divento grande”, ho accolto con gioia la nuova ondata di persone che si sono affacciate nella mia vita.  

Work in progress

Quella sera a casa di Lallo, manco a dirlo, c’erano molte persone. Fuori pioveva e arrivammo un po’ alla spicciolata, chi prima chi dopo, chi molto dopo per vari motivi. Ognuno portava qualcosa, ma c’era sempre quello che si imbucava contando sull’abbondanza altrui. Una sorta di “portoghesi casalinghi” che scavalcavano il portone e la porta di ingresso e si accomodavano a tavola. Quelli erano gli anni in cui la mamma di Ilario preparava teglie e teglie di lasagna al forno per le partite di rugby di Lalluccio, per quel terzo tempo che oggi, a pensarci, io e Carmen ci andremmo con tanto piacere! 

Quella sera sul tavolo c’era del pane da tagliare e del salame da affettare, e come nella migliore tradizione delle serate da Lallo le battute si sprecavano. Ai fornelli c’era lei, la rossa, che si destreggiava tra due padelle di risotto al radicchio, mantecando un po’ alla volta questa grande quantità di cibo che – mi sembra di sentirli anche ora – ci chiedevano a gran voce dal salotto. 
Io l’avevo vista nella redazione del quotidiano in cui facevamo gavetta e, lei lo sa, mi incuteva uno strano timore reverenziale. Non so perché, ma emanava una grande serietà e professionalità mentre scriveva i pezzi al pc. Ora, non che Carmen non sia seria e professionale, ma quando gliel’ho detto la prima volta mi ha riso in faccia.
Dinanzi a quel risotto qualcosa è cambiato. Si dice che le grandi alleanze si stipulino a tavola, tra un piatto prelibato e un buon bicchiere di vino: il piatto prelibato lo ha preparato lei, a un certo punto il vino l’ho aggiunto anche io, direttamente nella padella, perché il brodo era finito e in qualche modo bisognava pur cuocere il riso…

San Simon e burro

Quando oggi preparavo gli ingredienti per questo secondo risotto al radicchio, una serie di ricordi si sono centrifugati nella mia testa, mentre Carmen mi prendeva in giro dicendo “Mi hai invitata a Roma per mangiare a tavola franca!”, “Eccert”. La forza di questo risotto al radicchio è nella scelta degli ingredienti, nella modalità di preparazione, nelle varianti che hanno, tra l’altro, il sapore del taleggio, nella certezza di un brodo abbondante e di un San Simon generoso. E poi in quel pizzico di esserci, condivisione, casacadutaggine, risate e non, sguardi obliqui e dita a V, viaggi in Irlanda e serate birrose. E ritorni a casa. Ieri, oggi, presto. 



*Per il risotto ci sono voluti circa 10 anni ma io e Carmen ci vediamo spesso, spessissimo. Tra poco ancora di più (per la sua felicità!).

domenica 24 settembre 2017

23 settembre

L'attesa della chiamata attraverso l'obiettivo del mio caro Lalluccio
Ricordare i giorni della nostra vita è una cosa comune. Memoriali, ricordi, anniversari, sono costantemente posizionati nella quotidianità, e ogni mezzanotte segna l’inizio di un giorno in cui eravamo, c’eravamo. Oggi è uno di quei giorni. Oggi è il giorno di 8 anni fa, quando a casa c’era un sottofondo rosso laurea che timidamente attendeva di affacciarsi per farsi conoscere da me.
Un giorno atteso non poco, a tratti chimerico, adombrato dai casi che si sono palesati sul mio cammino e dalle deviazioni che hanno arricchito il mio percorso. Un giorno tutto mio, in cui con me arrivavano al desiderato traguardo anche altri – la mia famiglia, gli amici cari – ma “io” un passo avanti agli altri. E così è stato.
Quel giorno ha chiuso un ciclo e ne ha aperto un altro che oggi, a distanza di 8 anni, si sta per chiudere. Cosa sono stati questi 8 anni? Sono stati una vita!
Sono stati nuove strade, percorsi, lavoro; traslochi, piumoni nei pullman, viaggi; scoperte e consapevolezze; responsabilità, crescita e formazione; strutturazione e progetti, amore, un grande amore; ma anche demolizione e decostruzione, paura, dolore, cambiamenti e nuove speranze; speranze timide, speranza.
Sono stati una vita che si rinnova ed è nuova davvero perché ha l’odore e i tratti di un bambino che prima non era e che ora “è” e “c’è” quando tutto grida novità, quando tutto dice “sradica e risana per ricostruire”.
Quel 23 settembre, lo ricordo bene, doveva essere un giorno di luglio che sa di Argentina e che le carte e gli uffici rimandarono a settembre, quando l’estate è appena finita ma il suo profumo è ancora nell’aria; era il primo giorno di san Pio, che da un anno era nei miei paraggi senza che me ne accorgessi, restandomi accanto mentre il tempo e lo spazio mutavano e la mia vita con essi.
Quel 23 settembre è stato il giorno del “mi vesto come Carrie a modo mio”, perché agli appuntamenti della vita bisogna arrivare con un personale e soggettivo tocco di classe.
Quel 23 settembre è stato il giorno delle dediche e dei ricordi, racchiusi in una sequenza di parole e pagine che critallizzavano un percorso di studi e un tratto di vita.
Quel 23 settembre ha il volto dei tantissimi che erano con me all’Università (e a fare festa spensieratamente), dei tantissimi che quasi 5 anni dopo sarebbero stati con me a sostenermi nell’affrontare altri esami della mia vita, sempre gioiosi, sempre lì, vicini e onestamente belli.
Sono passati 8 anni e spero non ne passino molti altri per portare a termine un altro percorso di studi che intanto si è riaffacciato da queste parti. E con lo studio altre idee, progetti, sogni.

mercoledì 20 settembre 2017

“La pazza gioia” Film #2


“Abbiamo anche una macchina… ci diamo alla pazza gioia”. Ho sorriso quando ho ascoltato questa battuta, pronunciata da Beatrice a Donatella nel film La pazza gioia di Paolo Virzì. Un po’ Thelma e Louise, un po’ ragazzine problematiche de Il grande cocomero, queste due «pazze, siamo pazze… secondo alcune perizie sembrerebbe di sì» mi hanno fatto compagnia nella seconda parte di una serata in cui dovevo smaltire la brutta sconfitta della Lazio contro il Napoli (Ciruzzo, bell i mamm, stasera niente). Poca cosa, a dire il vero, la sconfitta da smaltire. Il film era già nell’aria: avrei voluto vederlo quando è uscito ma, come capita spesso, non sempre le cose accadono quando vorremmo. Io poi sono così, una cosa la devo sentire nel profondo o niente. 
Non ho i mezzi, gli strumenti, per entrare nella vita di Beatrice (interpretata da Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella (Micaela Ramazzotti), è uno squarcio troppo profondo nel quale non so inoltrarmi. Non posso discettare sulla realtà della questione psichiatrica e di tutto il suo corollario. Ma posso provare, piano piano e in punta di piedi, a dire il sentire che questo film mi ha lasciato, perché da questo film non si esce indenni o uguali a come ci si è accostati.
La pazza gioia è un concetto complesso, l’accostamento di due mondi che parlano di sentimenti estremi, perché posti alle estremità delle emozioni. Quando ero piccola mi capitava di sentir dire “ti voglio un bene pazzo”, e pazzo diventava la misura dell’estremo, del senza limite o misura, il superlativo per eccellenza per dire “mi fai scoppiare il cuore dal bene che ti voglio” perché la pazzia il cuore lo mette a dura prova. La gioia, poi, inebria, è quella cosa che ti salgono gli angoli della bocca, ti si riempiono gli occhi di lacrime ma non è dolore, è vita che ti scorre dentro alla massima potenza, è sangue che fluisce sempre più forte e vivifica ogni pezzetto di fibra.
La pazza gioia è la scena dell’auto rubata da Beatrice e Donatella, è la consapevolezza di una libertà di cui non si conosce l’esistenza, della corsa fuori da una clinica di recupero “leggera”, dove l’umanità non è mortificata ma depauperata perché vive una vita fatta di sopravvivenza.

- Siamo due pazze, siamo due pazze
- Tecnicamente si… ma è fantastico: abbiamo anche una macchina… ci diamo alla pazza gioia! Perché non andiamo al mare… andiamo a fare un giro in barca… ci prendiamo il vento in faccia… che giorno è oggi? Che numero, che mese, siamo già in estate?
- Bo.

La pazza gioia di Beatrice e Donatella è anche lo spettro del male oscuro, di quella depressione che cammina silente verso l’espropriazione del sé, verso l’annichilimento della voglia di vivere.

- Birrette e, naturalmente, anche un bel valium fregato a mia madre
- …dice sto troppo male per tenere il bimbo, inidoneità genitoriale, e me lo levano subito… dice te aspetta, dobbiamo decidere; io aspetto, piango tutto il giorno ma aspetto… piangi troppo, dice; depressione maggiore, dice; datemelo, no, non piango più; no, te sempre hai pianto, piangevi a scuola
- Anche io
- Sanno tutto, sanno che piangevo per i compiti, piangevo per il babbo, piangevo in ascensore
- Anche io
- Quando mamma mi sgridava che piangevo
- Anche io
- C’ho questa depressione maggiore, va bene, e allora curatemi, no? Sono nata triste, curatemi
- Anche io sono nata triste

Io la vedo la tristezza, la riconosco la malinconia, che arrivano e si rintanano negli occhi delle persone: cade un velo che fa rannicchiare nel corpo e nella mente in posizione fetale, chiusi in un guscio che va all’indietro nella corsa del tempo, a cacciare la vita di fuori per tornare in quella vita di dentro dove tutto era buio, calore, suoni attutiti, poco rumore, pace. Ma la vita è fuori, è negli occhi del bambino tolto, è oltre il dolore che attanaglia, è la soluzione al buco nero sul cui limite si cammina rovinosamente. È vita anche il dialogo tra Donatella e il piccolo Elia, occhi negli occhi, con il respiro trattenuto sott’acqua, nel non detto che è tra le righe delle loro parole.

- Hai presente quando ti prude la schiena?
- Si
- Quella sono io che ti fo il solletico
- Mi prude la sera
- Vuol dire che la sera ti penso di più
- …
- E adesso dove vai?
- Non lo so, in un posto per stare meglio, così poi un giorno ci si rincontra, no?

A fare da sottofondo a questo film meravigliosamente delicato, una canzone di Gino Paoli, uno degli uomini che con maggiore forza canta e ha saputo cantare l’intrico dei sentimenti umani.

Senza fine, tu trascini la nostra vita,
senza un attimo di respiro per sognare,
per potere ricordare ciò che abbiamo già vissuto
Senza fine, tu sei un attimo senza fine,
non hai ieri, non hai domani
tutto è ormai nelle tue mani, mani grandi,
mani senza fine
Non m'importa della luna,
non m'importa delle stelle.
Tu per me sei luna e stelle,
tu per me sei sole e cielo,
tu per me sei tutto quanto,
tutto quanto io voglio avere
Senza fine, la la la la la la la la la 

Poi il film finisce, e il finale è meno drammatico di quello che si possa pensare. Sono convinta che c’è liberazione per Beatrice e Donatella, l’ho letto nel dialogo muto tra Beatrice – che guarda il ritorno di Donatella seduta dietro i vetri della finestra – e Donatella, in quel piccolo sorriso che si arrampica verso la serenità. L’ho visto tra le righe delle loro parole.

- Meno male che ci sei te
- Io?
- Te, te

lunedì 18 settembre 2017

"Elsa e Fred" Film #1

Con un po' di immaginazione, questa sono io tra qualche anno (tratto da Up e dalla cover del mio cellulare)
Cercando di capire chi mi avrebbe fatto compagnia in questa serata di lavoro al pc, ho fatto un giro tra i palinsesti televisivi e mi sono imbattuta in un film che ha deciso per me. “Elsa e Fred” è un titolo che non ha bisogno di grandi spiegazioni, l’omonimia ha orgogliosamente avuto la meglio, e quando poi ho letto il nome di Shirley MacLaine ho pensato “è fatta”. Per grandi linee avevo capito che Elsa-Shirley fosse una peperina che avrebbe scombussolato la vita di un neo vicino di casa portando una ventata di simpatia, e mi bastava.

La Elsa del film è una donna anagraficamente anziana, decisamente anziana; lo stesso vale per Fred. La loro conoscenza avviene in quella fase della vita in cui, in maniera riduttiva, si tende a pensare che tutto sia finito, che sia lì per finire, che le emozioni siano solo una derivata da vite altrui, di rimpallo, in rimbalzo, di seconda mano, come se la genesi delle emozioni avesse un’età oltre la quale la radice rinsecchisca. E invece no. Questi due qua, strampalata donna separata lei, vedovo fresco fresco di acquisizione lui, mi hanno regalato una serata emozionante.

La loro complicità, costruita passo dopo passo; la politica dei piccoli passi di Elsa che diventano passi veloci, che fa rialzare Fred da letti e divani su cui la sua vita si era parcheggiata per poi tornare a camminare, ad andare incontro alle piccole grandi cose di ogni giorno; la fantasia di Elsa, una dimensione del sogno che mi fa tremare i polsi per quanto è fresca, coinvolgente, pazzamente ilare e contagiosa. La sua capacità di dire le cose, il coraggio di vivere ancora e di innamorarsi con forza nonostante il poco tempo reso ancora più breve dai casi della vita. E poi c’è Fred, bloccato nel dolore per la morte di una donna che non ha amato; reso ipocondriaco dall’abulia verso la vita; una candela che si sta affievolendo su cui arriva a soffiare il vento di un nuovo amore, imprevisto e meraviglioso.

C’è una scena in cui Elsa e Fred, come due adolescenti alla prima uscita, mettono in chiaro cosa sta loro accadendo:

Fred: Cosa sono io per te, Elsa? Cosa siamo noi? Da quando ti ho conosciuto la mia vita è cambiata, è “strano”. È una cosa buona o cattiva?
Elsa: È “strano” …Fred, non voglio ferirti, e ti ho detto quanto mi importa di te, sto solo chiedendo se ci sia di più. Ho delle sensazioni così forti…
Fred: Sembri un'adolescente.
Elsa: Sono un'adolescente!
Fred: Si, lo sei. Una ragazza nel corpo di una donna. Una donna molto bella.
Elsa: Quindi è una buona “cosa strana”.
Fred: Si.
Elsa: Pensi che abbiamo un futuro insieme? Sei timido? Amo questo ragazzo di 80 anni seduto di fronte a me, che arrossisce. Come faccio a non innamorarmi di te?

La pietrificazione che questa scena mi ha procurato è stata lentamente ammorbidita dal resto del film, che se ve lo vedete fate una cosa buona e giusta. In mezzo troverete anche Roma, città eterna che sa essere un set romantico come poche città al mondo, e in cui questa storia da sogno trova il più bell’epilogo possibile. Ora, e non vi spoilero il finale, va detto che non c’è melassa fino alla fine, perché la vita è agrodolce e a tratti sa essere amara. E aggiungo anche che non so trovare una chiusa a questo post degna del film visto. La verità è che sto aspettando che Fred – quando arriverà – si decida ad alzarsi dal divano e a partire con me.

giovedì 14 settembre 2017

Ragazzina

Mia nonna Vincenza si divertiva a scattare foto a noi nipotini. Qui sono a casa dei nonni materni, 
un ricordo che rivive ogni volta che da casa mia mi affaccio e guardo "la finestra di fronte" 

Mi è capitata una cosa molto bella, pochi giorni fa. Di una bellezza che mi ha colpita per la sua franca semplicità, non dovuta, non attesa. Gli occhi profondi e i capelli bianchi di un uomo stanco e ricurvo sul suo dolore mi hanno guardato, le mani protese verso le mie, mentre il cuore consegnava alle labbra poche parole: “Sei brava, ragazzina”.

Qualche mese fa ho comprato il nuovo album dei Baustelle, “L’amore e la violenza”, una raccolta di canzoni che ogni volta mi sembra che Bianconi e compagnia non possano fare di meglio e, invece, ogni volta mi sbaglio. Tra le canzoni ce n’è una che mi sconquassa tutta perché è delicata e semplice, il canto d’amore di un padre timido eppur custode di parole e sentire come pochi. La canzone che il padre dedica alla sua “Ragazzina” – è questo il titolo – “Gambe secche che passeggi tra i coralli”, è lo sguardo di un padre che guarda e prova a tenerle la mano mentre attorno è tutta un’inquietudine, in sospensione tra il vivere e il morire, tra Biancaneve e la strega, in un mondo che “sbuccia le ginocchia e fa sanguinare”.
“Ma tu invece lo continui ad abbracciare (il mondo) e non lo lasci più”, perché i bambini sono così, vanno incontro alle cose e le prendono con sé. 

“Ragazzina” è il vezzeggiativo con cui Christopher chiama sua figlia Rory, nel (meraviglioso) telefilm “Una mamma per amica”, e lo fa nelle puntate andate in onda un annetto fa, con una Rory 32enne che si ritrova a fare i conti con quella fase della sua vita: perché si cresce e ci sono i sogni da coltivare, il mondo da abbracciare, streghe da conoscere, mele da evitare, orchi da allontanare e principi (?) da amare, ma arriva quel momento lì e non puoi fare altro che rallentare fino a fermare il tempo. La ragazzina Rory aveva dissodato il campo dell'ignoranza, irrigandolo e fortificandolo di esperienze e conoscenza, zaino in spalla e via verso il mondo. Poi la vita non è quasi mai quella che ti eri immaginata (eh, lo so che è una frase fatta ma se si dice “la saggezza degli antichi” ci sarà pure un motivo) e quindi ti ritrovi a riavvolgere il nastro per riascoltarlo.

E allora rivedo la ragazzina che ero, con le orecchie un poco a sventola che il tempo ha domato, con le codine e i ricci che – invece – si sono fatti sempre più indomiti; le gambe secche che si sono arrotondate e sono cresciute ma poco, gli occhi verdi sempre vigili e resi miopi dalla lettura; la curiosità del primo libro rimasta intatta ogni volta che una nuova porzione di mondo si fa spazio tra le mani e gli scaffali della mia libreria; i sogni ricorrenti e quelli infranti, i pensieri stupendi e quelli no; i vuoti e i pieni, il tempo di fermarsi. 

Rivedo la ragazzina di ieri e trovo la ragazzina di oggi, con le rughe di espressione, qualche cicatrice in più e sbucciature di ginocchia in meno, ma una rinnovata voglia di “abbracciare il mondo”. 
Torno allo sguardo carico di anni che mi ha chiamato “ragazzina” e allo stupore che si è disegnato sul mio viso. Solo ora mi accorgo che quelle parole erano un abbraccio per la donna di oggi.

lunedì 11 settembre 2017

Torrione. State of mind state of heart

La focaccia di Annamaria
“No, non puoi capire”.
“Io mi sono allontanata da casa di 120 km, la capisco la distanza!”
“No, scusa, ma davvero non puoi capire. Quando faccio le analisi, nel sangue cercano le tracce di leucociti, tas, marcatori, emocromo completo, Torrione. Perché Torrione lo tieni nel sangue”.

Questa conversazione* ha avuto luogo davvero: iniziamo col dire questo, così non lasciamo adito a supposizioni! Se siete nati e cresciuti in una città di provincia, e il senso di appartenenza al vostro rione è cresciuto proporzionalmente ai vostri anni, potete comprendere fino in fondo questa conversazione. Capita anche nelle metropoli, ma lì i quartieri somigliano più a delle città in miniatura e il senso del tutto si disperde come il riverbero delle onde concentriche al lancio di un sasso.

Torrione è il rione che raccorda il centro di Salerno, la mia città, con l’inizio delle zone periferiche orientali, un quartiere particolarmente esteso e che conta anche una zona collinare – Torrione Alto – che svetta a metà e che, naturalmente, non sarà mai bella come la vera “Torrione”, che non si chiama Torrione bassa perché non ha bisogno di essere identificata in sé. Torrione, punto.

Questo amore rionale affonda le sue radici nei ricordi di sempre, in quelli che diventano un prisma colorato attraverso il quale passa la luce che accende la memoria.
I ricordi dei primi anni di scuola, tra asilo e scuola elementare, quando il viale alberato di casa mia pullulava di zaini colorati e grembiuli, trecce e codine.
I ricordi dei Natali addobbati, quando le luci erano quelle dei negozi che si rivestivano di oro e argento, mentre impaurita guardavo attorno con circospezione temendo di scorgere Babbo Natale (una paura che ho superato in età avanzata…).
I ricordi delle primavere in fiore, con il naso all’insù per provare a scorgere la prima rondine; o dei mesi di maggio degli anni delle scuole medie, che odoravano di caffè tostato e rugiada, in quel tempo sospeso verso l’estate.
I ricordi dei mesi di luglio, quando una carovana di ragazzini camminava in fila indiana verso la spiaggia, capitanati da un padre generoso e premuroso che faceva incetta di pizzette e focacce prima di consegnarci alla sabbia. Erano mesi “unti” di cibo e creme protettive, e il profumo di crema al cocco ha impregnato da quel dì i miei ricordi marini, perché l’estate non è tale se non sento nell’aria la crema al cocco.

Quando sono andata a vivere a Roma, circa 8 anni fa, ho guardato con curiosità ai quartieri romani, ai municipi, provando a intercettare qualcosa di originario e natìo in quelle strade larghe. Ho trovato qualcosa di simile nella mia amata Tuscolana, che con Torrione condivide la “T” iniziale e il suo essere varia e pullulante di gente, con la mia edicola di riferimento (i giornalai sono per me imprescindibili!), varie parrocchie, il supermercato, le vetrine, il vociare per strada, i sudisti salernitani presenti in quantità massiccia.

Quando torno a casa, a Salerno, e dalla stazione la macchina svolta su Piazza della Concordia, l’odore della salsedine mi invade e inizio a sentirmi a casa. Ma quando arrivo ai campetti di tennis, sotto il Forte la Carnale, e scorgo la scalinata della mia parrocchia, i giochi nel parco dell’infanzia, i muretti con la balaustra che ha misurato la crescita (poca, per me) in altezza della mia generazione, in quel momento un sorriso si distende sul mio viso, da una parte all’altra delle lentiggini, e sono felice.


*La conversazione ha avuto luogo da Annamaria, la storica panettiera che ha sfamato diverse generazioni di bimbi della scuola elementare “Matteo Mari”, come documenta la focaccia nella foto di questo post. Ai miei tempi, la focaccia ripiena di cracker sbriciolati era il top.

giovedì 31 agosto 2017

La telefonata del 548 #storiedibus

Piazza di Cinecittà - Capolinea 548

La signora di fronte a me, seduta sul sedile del 548, che in questo ultimo rigurgito di agosto si agita al telefono, parla di “porte di cesso” e trasparenze inopportune. Qualcuno, dall’altra parte del cellulare, deve aver ristrutturato casa scegliendo una porta che sembra non tenere in alcuna considerazione la privacy. Il suddetto interlocutore ha lasciato poco spazio all’immaginazione, permettendo – a chi guarda da fuori e a chi opera da dentro – di mantenere una comunicazione visiva che non lascia adito al vedo-non-vedo.
Questa cosa mi accompagna per tutto il tragitto da lavoro alla metro, in un percorso che è una via crucis arida. Lo sguardo vitreo di questa donna dagli occhi azzurro annacquato, le labbra rigonfie in un modo caricaturale, il cellulare usato come un microfono, le danno un senso di avvilimento umano, di decadimento, di mortificazione, di profonda solitudine. In questi quasi 8 anni di vita romana sono tante le solitudini intercettate, nascoste dietro una voce troppo alta al telefono, un dialetto “strascicato”, sprazzi di follia o sguardi bassi, fermi a mezz’aria nel vuoto. Roma, città bella ed eterna, metropoli vasta che affascina dall’alto del Gianicolo, si mostra casa di monadi solitarie se guardata da vicino, a tu per tu con l’umanità che la popola. L’umanità di quelle periferie lontane dalle belle passeggiate, abbandonata in municipi contrassegnati da un numero romano che della gloria della Roma Caput Mundi non ha quasi nulla più. È l’umanità che vedo in una signora nella zona del lavoro, al mattino, mentre cammino con le cuffie nelle orecchie e sono intenta a scrutare volti e posture, e lei è puntualmente lì, tra il viale e la traversa, con le guance colorate, il foulard in testa annodato sotto il mento, gli enormi occhiali da sole che provano a chiudere la visuale di un volto su cui emerge il rosso acceso e sbavato di un rossetto troppo vistoso su un viso bianco cipria.
Poi c’è la Roma bella, quella dei sanpietrini e degli archi che aprono lo sguardo su scorci d’incanto, Roma del Lungotevere e di Corso Vittorio Emanuele. Ma quella è tutta un’altra linea.

lunedì 28 agosto 2017

Memories #2



Il calendario appeso in cucina mi dice che oggi è sant’Agostino: santo amato, santo stimato, santo rispettato, santo che incuriosisce, santo che parla al cuore dei vicini e alla mente dei lontani. Santo tutto uomo che dell’umanità non ha lasciato nulla indietro, nulla di intentato, e che del tutto non ha avuto soddisfazione piena.
Sant’Agostino come quei figli che fanno palpitare le madri, sospese su un filo sottile tra il dolore, l’ansia, la preoccupazione – che si ergono come una vastità senza confini – e quella piccola, minima ma tenace speranza, che «tutto tollera, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (cf Inno alla carità), come dice quel san Paolo che in quanto a malfatte è stato un notevole precedente.
Per questo, quando ho letto la prima volta queste parole e ogni volta che le leggo, guardo ad Agostino di Ippona, all’uomo nella sua dignità e agli uomini tutti, a quel “tardi t’amai” che, seppur tardi, mai vana lascia ogni speranza.


Post del 18 aprile 2011
Tutte le volte che mi imbatto in queste parole, non posso fare a meno di soffermarmi sulla loro bellezza, profondità, struggente e immensa verità.

Tardi t'amai, bellezza infinita, tardi t'amai,
tardi t'amai, bellezza così antica e così nuova.
Eppure, Signore, tu eri dentro me, ma io ero fuori;
deforme com’ero, guardavo la bellezza del tuo creato.
Tardi t’amai, bellezza infinita, tardi t'amai,
tardi t’amai, bellezza così antica e così nuova.
Eri con me, e invece io, Signore, non ero con Te;
le tue creature mi tenevano lontano, lontano da Te.
Tardi t’amai, bellezza infinita, tardi t’amai,
tardi t’amai, bellezza così antica e così nuova.
Tu mi chiamasti, e la Tua voce squarciò la mia sordità;
Tu balenasti e fu dissipata la mia cecità.
Tardi t’amai, bellezza infinita, tardi t’amai,
tardi t’amai, bellezza così antica e così nuova.
Tu esalasti il dolce Tuo profumo ed ho fame e sete di Te;
mi hai toccato: ecco ora io anelo alla Tua pace.
Tardi t’amai, bellezza infinita, tardi t’amai,
tardi t’amai, bellezza così antica e così nuova.

Tardi t'amai (Confessioni X, 27.38) 


venerdì 25 agosto 2017

Modalità memories: ON

Lungomare di Salerno - agosto 2017 - ore 7.40






Stamattina presto, mentre il giorno si palesava nell'aria e il silenzio si rompeva sempre più, pensavo a mia sorella e alla sua famiglia in partenza per casa loro, a Strasburgo; pensavo ai 1289 km che separano la loro quotidianità da quella di tutti noi qua. Nella mia testa riflessioni e parole hanno iniziato a farsi spazio. Ma poi la giornata mi ha messo di fronte a pensieri e parole del passato, a note e appunti di giorni lontani nel tempo e nello spazio, ed eccomi qua.
I pensieri di oggi hanno bisogno di più tempo per
essere elaborati. Oggi sul mio blog attivo la modalità memories. Vediamo cosa scrivevo qualche anno fa.

12 gennaio 2009
Rjabinin (da L'elegenza del riccio - Muriel Barbery)
"…La più bella scena di Anna Karenina è ambientata a Pokrovskoe. Levin, cupo e malinconico, cerca di dimenticare Kitty.
È primavera, va nei campi a falciare con i suoi contadini. All’inizio il lavoro gli sembra troppo duro. Sta per implorare pietà, quando il vecchio contadino che guida la fila ordina una pausa. Poi la falciatura riprende. Levin è di nuovo allo stremo delle forze, ma il vecchio alza una seconda volta la falce. Riposo. E la fila si rimette in cammino, quaranta individui che abbattono le andane e avanzano verso il fiume mentre sorge il sole. Fa sempre più caldo, le braccia e le spalle di Levin sono inondate di sudore, ma tra pause e riprese i suoi gesti, inizialmente maldestri e dolorosi, si fanno sempre più sciolti. All’improvviso una beata frescura gli copre la schiena. Pioggia d’estate. A poco a poco Levin libera i movimenti dal peso della volontà, entra nella leggere trance che, senza riflessione né calcolo, conferisce ai gesti la perfezione delle azioni meccaniche e consapevoli, e la falce sembra muoversi da sola mentre Levin si delizia dell’oblio, nel movimento che rende il piacere di fare meravigliosamente estraneo agli sforzi della volontà.

È ciò che succede in tanti momenti felici della nostra esistenza. Sollevati dal fardello della decisione e dell’intenzione, navigando sui nostri mari interiori, assistiamo ai nostri movimenti come se fossero le azioni di un altro e tuttavia ne ammiriamo l’involontaria eccellenza. Quale altro motivo potrei avere io per scrivere questo, il ridicolo diario di una portinaia che invecchia, se non che la scrittura somiglia all’arte del falciare? Quando le righe divengono demiurghi di se stesse, quando assisto, come un miracoloso insaputo, alla nascita sulla carta di frasi che sfuggono alla mia volontà e che si imprimono sul foglio mio malgrado, esse mi fanno conoscere quello che non sapevo né credevo di volere, gioisco di questo parto indolore, di questa evidenza non calcolata, e del fatto che seguo senza fatica né certezza, con la felicità delle meraviglie sincere, una penna che mi guida e mi porta.

Come facciamo presto, dall’apparenza e dalla posizione, a trarre conclusioni sull’intelligenza di tutti gli esseri…Rjabinin, che conta le sabbie del mare, abile commediante e manipolatore arguto, non si cura dei pregiudizi che gravano su di lui. Nato intelligente e paria, la gloria non lo interessa; lo spingono sulle strade del mondo solo la promessa del profitto e la prospettiva di andare a derubare garbatamente i signori di un sistema idiota che lo disprezza ma non sa frenarlo. Così sono io, povera portinaia rassegnata alla mancanza di fasti – ma anomalia di un sistema che per questo si rivela grottesco e del quale, ogni giorno, mi burlo sottovoce nella mia interiorità inaccessibile a chiunque".

venerdì 18 agosto 2017

Spensieratezza


Il volo dell'angelo - Trentinara - Salerno
Sarà per il caldo. Sarà per la cappa di afa che come la nuvoletta di Fantozzi sovrasta e tutto avvolge in questo caldo mese di agosto. Sarà forse proprio per il mese di agosto, croce e delizia, odio et amo, che sempre arriva portando con sé un pacchetto all inclusive di sensazioni. Sarà che sono circa 24h che mi trovo di fronte a una parola che mi interroga.
Spensierato.
Due persone tra loro sconosciute mi hanno messa di fronte a questo aggettivo, conduttore di un significato ampio e di esperienze varie. Questo è il periodo dell’anno della spensieratezza. E ma io mi ci interrogo, perché a sto giro tutta sta spensieratezza non so se la percepisco. È una condizione perpetua? La si vive a singhiozzi? È a tempo determinato? È inserita in un co.co.pro. estivo?
Poi non so quanto c’entri, ma mentre provo a mettere nero su bianco pensieri nebulosi, sfilano sullo schermo della tv le immagini di Barcellona e i volti di attentatori giovanissimi, virgulti d’uomo che in sé incarnano – o dovrebbero incarnare – la spensieratezza per eccellenza.

Cos’è la spensieratezza? Dove si trova? È quella che vedo su immagini di piedi laccati poggiati su teli da mare? È nei riflessi del sole che si poggiano su cosce abbronzate instagrammate? È nelle frasi postate su Twitter? Nei video caricati su Facebook? È nel labile confine tra vita reale e virtuale? O forse è in tutto quello che non si vede ma si sente, vive, percepisce strisciante nelle fibre del proprio essere?
 
Forse è una cosa semplice ma stasera non riesco a vederla.

«“Sai, sei un pochino complicata dopo tutto”.
“Oh, no”, lo rassicurò lei in fretta. “No, per niente, sono solo… tante diverse persone semplici”».
Tenera è la notte, Francis Scott Fitzgerald



mercoledì 12 luglio 2017

La pazienza dei biscotti

I biscotti, dopo tanta pazienza :)

A casa mia la cucina è sempre stata affollata: mamma e papà sono molto bravi ai fornelli e trovare un angolo per iniziare a pasticciare non è stato facile. Forse consideravano me, mia sorella Ilaria e mio fratello Francesco troppo piccoli per imparare; forse i genitori hanno nel DNA l’impellente necessità di provvedere a procacciare, cucinare, distribuire il cibo ai cuccioli. I genitori del Sud, poi, non ne parliamo proprio. Forse è la consapevolezza del luogo. Per stare in cucina ci vuole cognizione, disciplina, un pizzico di brio, una manciata di improvvisazione, una buona dose di elasticità e tanta pazienza. Non q.b. (quanto basta, come indicato nelle ricette) ma con abbondanza e senza lesinare le quantità.
Perché la cucina è una scuola di pazienza. Prima di arrivare ai fornelli, ho imparato la pazienza da piccola in tutta una serie di attività collaterali.
La raccolta dei punti della Centrale del Latte. Posso dire senza timore di essere smentita di aver fatto una lunga gavetta nel taglio preciso e minuzioso dei punti, interi e mezzi punti; di averli incollati uno per uno, singolarmente, e poi rinforzati con la striscia di scotch per non farli scollare. Quando sono andata a lavorare lontano da casa ho lasciato questa importante eredità a mio padre, che mi rende partecipe a distanza dello stato dei lavori.
Le mie nonne mi hanno insegnato a infilare il cotone nella cruna dell’ago, che per mettere il filo di pazienza ce ne vuole. Quando c’era da organizzare qualcosa, man mano che crescevo, “questo fatelo fare a Elsa che è un lavoro di pazienza”.
Da quando vivo da sola e sto a tu per tu con la cucina ho potuto esercitare questa nobile virtù con maggiore naturalezza. Forse è la sua collocazione: affaccia in una corte interna, al riparo dal traffico e dal caos, in un angolo di mondo che vive di vita propria. È qui che la sera tardi e la notte mi rifugio a pazientare.
Mi piace molto cucinare. Una cosa che mi riesce particolarmente bene sono i biscotti. La mia è una ricetta che arriva da lontano, consegnata nel dicembre del 1997 a mia madre “dalla Silvana”, a Bolzano, che a sua volta la conserva come un bene prezioso tramandato dal natio Südtirol. Da lì è scesa fino a Salerno, per allietare i palati e le papille gustative di quanti sono entrati in contatto con mia madre. Poi ho perso il conto della capillarità della diffusione dell’assaggio.
Ho imparato la pazienza dai biscotti, impiegando dai 2 ai 3 giorni per prepararli. Perché il burro deve essere morbido da schiacciare con la forchetta e da impastare; le uova a temperatura ambiente; la farina setacciata e mescolata col frustino a mano insieme allo zucchero, per unire gli ingredienti base. La frolla lavorata bene e lasciata riposare nel frigo, protetta da un abbondante strato di carta cellophane. Lì, per 24 ore, i legami si solidificano in attesa di trovare una nuova forma tre le mie mani. E ancora la sistemazione attenta sulla teglia, la regolazione della temperatura del forno, l'attesa della cottura, il raffreddamento, la decorazione... A volte penso che potrei fare prima ma, come dice mia sorella Ilaria: “In ogni caso le cose, per venire bene, necessitano di tempo”.
Vivo un tempo di attesa in cui sto allenando molto la mia pazienza. Ma, se il forno regge bene la cottura, i biscotti forse stanno per uscire.
  
Per quanti volessero cimentarsi, ecco la ricetta dei biscotti
500 gr farina
200 gr zucchero
3 uova (a temperatura ambiente)
250 gr burro
1 bustina lievito vanigliato (potendo, da sciogliere in un po’ di latte freddo)
1 bustina di vanillina
Tanta pazienza

Cottura (forno a gas)
Preriscaldato a 200°, in forno a 180° per 10 minuti


Mano nella mano

All’improvviso una mano afferra la mia nel tentativo di placare il panico e, mentre mi giro, vedo due occhi fermi e rassicuranti, dritti nei...