“Abbiamo anche una macchina… ci diamo alla pazza gioia”. Ho sorriso quando ho ascoltato questa battuta, pronunciata da Beatrice a Donatella nel film La pazza gioia di Paolo Virzì. Un po’ Thelma e Louise, un po’ ragazzine problematiche de Il grande cocomero, queste due «pazze, siamo pazze… secondo alcune perizie sembrerebbe di sì» mi hanno fatto compagnia nella seconda parte di una serata in cui dovevo smaltire la brutta sconfitta della Lazio contro il Napoli (Ciruzzo, bell i mamm, stasera niente). Poca cosa, a dire il vero, la sconfitta da smaltire. Il film era già nell’aria: avrei voluto vederlo quando è uscito ma, come capita spesso, non sempre le cose accadono quando vorremmo. Io poi sono così, una cosa la devo sentire nel profondo o niente.
Non ho i mezzi, gli strumenti, per entrare nella vita di Beatrice (interpretata da Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella (Micaela Ramazzotti), è uno squarcio troppo profondo nel quale non so inoltrarmi. Non posso discettare sulla realtà della questione psichiatrica e di tutto il suo corollario. Ma posso provare, piano piano e in punta di piedi, a dire il sentire che questo film mi ha lasciato, perché da questo film non si esce indenni o uguali a come ci si è accostati.
La pazza gioia è un concetto complesso, l’accostamento di due mondi che parlano di sentimenti estremi, perché posti alle estremità delle emozioni. Quando ero piccola mi capitava di sentir dire “ti voglio un bene pazzo”, e pazzo diventava la misura dell’estremo, del senza limite o misura, il superlativo per eccellenza per dire “mi fai scoppiare il cuore dal bene che ti voglio” perché la pazzia il cuore lo mette a dura prova. La gioia, poi, inebria, è quella cosa che ti salgono gli angoli della bocca, ti si riempiono gli occhi di lacrime ma non è dolore, è vita che ti scorre dentro alla massima potenza, è sangue che fluisce sempre più forte e vivifica ogni pezzetto di fibra.
La pazza gioia è la scena dell’auto rubata da Beatrice e Donatella, è la consapevolezza di una libertà di cui non si conosce l’esistenza, della corsa fuori da una clinica di recupero “leggera”, dove l’umanità non è mortificata ma depauperata perché vive una vita fatta di sopravvivenza.
- Siamo due pazze, siamo due pazze
- Tecnicamente si… ma è fantastico: abbiamo anche una macchina… ci diamo alla pazza gioia! Perché non andiamo al mare… andiamo a fare un giro in barca… ci prendiamo il vento in faccia… che giorno è oggi? Che numero, che mese, siamo già in estate?
- Bo.
La pazza gioia di Beatrice e Donatella è anche lo spettro del male oscuro, di quella depressione che cammina silente verso l’espropriazione del sé, verso l’annichilimento della voglia di vivere.
- Birrette e, naturalmente, anche un bel valium fregato a mia madre
- …dice sto troppo male per tenere il bimbo, inidoneità genitoriale, e me lo levano subito… dice te aspetta, dobbiamo decidere; io aspetto, piango tutto il giorno ma aspetto… piangi troppo, dice; depressione maggiore, dice; datemelo, no, non piango più; no, te sempre hai pianto, piangevi a scuola
- Anche io
- Sanno tutto, sanno che piangevo per i compiti, piangevo per il babbo, piangevo in ascensore
- Anche io
- Quando mamma mi sgridava che piangevo
- Anche io
- C’ho questa depressione maggiore, va bene, e allora curatemi, no? Sono nata triste, curatemi
- Anche io sono nata triste
Io la vedo la tristezza, la riconosco la malinconia, che arrivano e si rintanano negli occhi delle persone: cade un velo che fa rannicchiare nel corpo e nella mente in posizione fetale, chiusi in un guscio che va all’indietro nella corsa del tempo, a cacciare la vita di fuori per tornare in quella vita di dentro dove tutto era buio, calore, suoni attutiti, poco rumore, pace. Ma la vita è fuori, è negli occhi del bambino tolto, è oltre il dolore che attanaglia, è la soluzione al buco nero sul cui limite si cammina rovinosamente. È vita anche il dialogo tra Donatella e il piccolo Elia, occhi negli occhi, con il respiro trattenuto sott’acqua, nel non detto che è tra le righe delle loro parole.
- Hai presente quando ti prude la schiena?
- Si
- Quella sono io che ti fo il solletico
- Mi prude la sera
- Vuol dire che la sera ti penso di più
- …
- E adesso dove vai?
- Non lo so, in un posto per stare meglio, così poi un giorno ci si rincontra, no?
A fare da sottofondo a questo film meravigliosamente delicato, una canzone di Gino Paoli, uno degli uomini che con maggiore forza canta e ha saputo cantare l’intrico dei sentimenti umani.
Senza fine, tu trascini la nostra vita,
senza un attimo di respiro per sognare,
per potere ricordare ciò che abbiamo già vissuto
Senza fine, tu sei un attimo senza fine,
non hai ieri, non hai domani
tutto è ormai nelle tue mani, mani grandi,
mani senza fine
Non m'importa della luna,
non m'importa delle stelle.
Tu per me sei luna e stelle,
tu per me sei sole e cielo,
tu per me sei tutto quanto,
tutto quanto io voglio avere
Senza fine, la la la la la la la la la
La pazza gioia è la scena dell’auto rubata da Beatrice e Donatella, è la consapevolezza di una libertà di cui non si conosce l’esistenza, della corsa fuori da una clinica di recupero “leggera”, dove l’umanità non è mortificata ma depauperata perché vive una vita fatta di sopravvivenza.
- Siamo due pazze, siamo due pazze
- Tecnicamente si… ma è fantastico: abbiamo anche una macchina… ci diamo alla pazza gioia! Perché non andiamo al mare… andiamo a fare un giro in barca… ci prendiamo il vento in faccia… che giorno è oggi? Che numero, che mese, siamo già in estate?
- Bo.
La pazza gioia di Beatrice e Donatella è anche lo spettro del male oscuro, di quella depressione che cammina silente verso l’espropriazione del sé, verso l’annichilimento della voglia di vivere.
- Birrette e, naturalmente, anche un bel valium fregato a mia madre
- …dice sto troppo male per tenere il bimbo, inidoneità genitoriale, e me lo levano subito… dice te aspetta, dobbiamo decidere; io aspetto, piango tutto il giorno ma aspetto… piangi troppo, dice; depressione maggiore, dice; datemelo, no, non piango più; no, te sempre hai pianto, piangevi a scuola
- Anche io
- Sanno tutto, sanno che piangevo per i compiti, piangevo per il babbo, piangevo in ascensore
- Anche io
- Quando mamma mi sgridava che piangevo
- Anche io
- C’ho questa depressione maggiore, va bene, e allora curatemi, no? Sono nata triste, curatemi
- Anche io sono nata triste
Io la vedo la tristezza, la riconosco la malinconia, che arrivano e si rintanano negli occhi delle persone: cade un velo che fa rannicchiare nel corpo e nella mente in posizione fetale, chiusi in un guscio che va all’indietro nella corsa del tempo, a cacciare la vita di fuori per tornare in quella vita di dentro dove tutto era buio, calore, suoni attutiti, poco rumore, pace. Ma la vita è fuori, è negli occhi del bambino tolto, è oltre il dolore che attanaglia, è la soluzione al buco nero sul cui limite si cammina rovinosamente. È vita anche il dialogo tra Donatella e il piccolo Elia, occhi negli occhi, con il respiro trattenuto sott’acqua, nel non detto che è tra le righe delle loro parole.
- Hai presente quando ti prude la schiena?
- Si
- Quella sono io che ti fo il solletico
- Mi prude la sera
- Vuol dire che la sera ti penso di più
- …
- E adesso dove vai?
- Non lo so, in un posto per stare meglio, così poi un giorno ci si rincontra, no?
A fare da sottofondo a questo film meravigliosamente delicato, una canzone di Gino Paoli, uno degli uomini che con maggiore forza canta e ha saputo cantare l’intrico dei sentimenti umani.
Senza fine, tu trascini la nostra vita,
senza un attimo di respiro per sognare,
per potere ricordare ciò che abbiamo già vissuto
Senza fine, tu sei un attimo senza fine,
non hai ieri, non hai domani
tutto è ormai nelle tue mani, mani grandi,
mani senza fine
Non m'importa della luna,
non m'importa delle stelle.
Tu per me sei luna e stelle,
tu per me sei sole e cielo,
tu per me sei tutto quanto,
tutto quanto io voglio avere
Senza fine, la la la la la la la la la
Poi il film finisce, e il finale è meno drammatico di quello che si possa pensare. Sono convinta che c’è liberazione per Beatrice e Donatella, l’ho letto nel dialogo muto tra Beatrice – che guarda il ritorno di Donatella seduta dietro i vetri della finestra – e Donatella, in quel piccolo sorriso che si arrampica verso la serenità. L’ho visto tra le righe delle loro parole.
- Meno male che ci sei te
- Io?
- Te, te
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