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La focaccia di Annamaria |
“Io mi sono allontanata da casa di 120 km, la capisco la distanza!”
“No, scusa, ma davvero non puoi capire. Quando faccio le analisi, nel sangue cercano le tracce di leucociti, tas, marcatori, emocromo completo, Torrione. Perché Torrione lo tieni nel sangue”.
Questa conversazione* ha avuto luogo davvero: iniziamo col dire questo, così non lasciamo adito a supposizioni! Se siete nati e cresciuti in una città di provincia, e il senso di appartenenza al vostro rione è cresciuto proporzionalmente ai vostri anni, potete comprendere fino in fondo questa conversazione. Capita anche nelle metropoli, ma lì i quartieri somigliano più a delle città in miniatura e il senso del tutto si disperde come il riverbero delle onde concentriche al lancio di un sasso.
Torrione è il rione che raccorda il centro di Salerno, la mia città, con l’inizio delle zone periferiche orientali, un quartiere particolarmente esteso e che conta anche una zona collinare – Torrione Alto – che svetta a metà e che, naturalmente, non sarà mai bella come la vera “Torrione”, che non si chiama Torrione bassa perché non ha bisogno di essere identificata in sé. Torrione, punto.
Questo amore rionale affonda le sue radici nei ricordi di sempre, in quelli che diventano un prisma colorato attraverso il quale passa la luce che accende la memoria.
I ricordi dei primi anni di scuola, tra asilo e scuola elementare, quando il viale alberato di casa mia pullulava di zaini colorati e grembiuli, trecce e codine.
I ricordi dei Natali addobbati, quando le luci erano quelle dei negozi che si rivestivano di oro e argento, mentre impaurita guardavo attorno con circospezione temendo di scorgere Babbo Natale (una paura che ho superato in età avanzata…).
I ricordi delle primavere in fiore, con il naso all’insù per provare a scorgere la prima rondine; o dei mesi di maggio degli anni delle scuole medie, che odoravano di caffè tostato e rugiada, in quel tempo sospeso verso l’estate.
I ricordi dei mesi di luglio, quando una carovana di ragazzini camminava in fila indiana verso la spiaggia, capitanati da un padre generoso e premuroso che faceva incetta di pizzette e focacce prima di consegnarci alla sabbia. Erano mesi “unti” di cibo e creme protettive, e il profumo di crema al cocco ha impregnato da quel dì i miei ricordi marini, perché l’estate non è tale se non sento nell’aria la crema al cocco.
Quando sono andata a vivere a Roma, circa 8 anni fa, ho guardato con curiosità ai quartieri romani, ai municipi, provando a intercettare qualcosa di originario e natìo in quelle strade larghe. Ho trovato qualcosa di simile nella mia amata Tuscolana, che con Torrione condivide la “T” iniziale e il suo essere varia e pullulante di gente, con la mia edicola di riferimento (i giornalai sono per me imprescindibili!), varie parrocchie, il supermercato, le vetrine, il vociare per strada, i sudisti salernitani presenti in quantità massiccia.
Quando torno a casa, a Salerno, e dalla stazione la macchina svolta su Piazza della Concordia, l’odore della salsedine mi invade e inizio a sentirmi a casa. Ma quando arrivo ai campetti di tennis, sotto il Forte la Carnale, e scorgo la scalinata della mia parrocchia, i giochi nel parco dell’infanzia, i muretti con la balaustra che ha misurato la crescita (poca, per me) in altezza della mia generazione, in quel momento un sorriso si distende sul mio viso, da una parte all’altra delle lentiggini, e sono felice.
*La conversazione ha avuto luogo da Annamaria, la storica panettiera che ha sfamato diverse generazioni di bimbi della scuola elementare “Matteo Mari”, come documenta la focaccia nella foto di questo post. Ai miei tempi, la focaccia ripiena di cracker sbriciolati era il top.