lunedì 24 settembre 2018

Il foglio bianco



La prima volta che ho affrontato il foglio bianco ero in terza elementare, la maestra ci diede una traccia e noi piccoli alunni eravamo lì, di fronte a queste righe strette, a cercare di mettere insieme le parole per raccontare qualcosa e raccogliere il plauso della maestra. Si cercava di afferrare con la mente qualcosa – i pensieri – e di metterli in sequenza uno dietro l’altro. Certo, per mettere insieme un pensiero occorre pensare e a 8 anni il dubbio che quel qualcosa a cui pensare – e quindi da scrivere – non avesse un suo nesso mi fece vivere per la prima volta l’ansia da foglio bianco, ben noto a chi ha a che fare costantemente con le parole.

Quattro mesi che non scrivo sul blog, e in effetti è un lungo foglio bianco quello che si dipana dinanzi ai miei occhi. Quattro mesi in cui l’inchiostro digitale non ha battuto il nero sul bianco del word, lasciando un buco comunicativo nel mio reale mondo virtuale. Un foglio si può misurare in giorni? Un foglio grande 120 giorni il mio, lungo circa 4 volte il cammino di Santiago, in cui i pensieri si sono rincorsi in silenzio per non fare troppo rumore.

Che il silenzio, poi, a volte è solo apparente perché, mentre fuori non si sente nulla, la meccanica del cuore macina ingranaggi su ingranaggi, scandisce il tempo, i pensieri, le parole, e l’afonia non è mancanza di parole ma volontà di tenerle dentro, macerarle, tenerle sotto spirito come le amarene che mia madre prepara in estate per lasciarle diventare ciò che diventeranno, lasciare che prendano sapore. Un po’ come la vendemmia che faceva mio padre, quando preparava i tini e attendeva che l’uva pigiata diventasse altro, si consumasse in se stessa per diventare qualcosa di nuovo. E ancora lo ricordo l’odore che saliva dalle cantine di legno e mura umide, fin nella casa del paradiso: era il profumo di attesa silenziosa.

Nel silenzio che ha vorticato nella mia mente ho scritto e riscritto molte parole: ho raccontato i piccoli accadimenti che ho osservato camminando per le strade di un Paese nuovo e di una nuova città, ascoltando parole sfuggenti in una lingua che non è la mia e che mi sto allenando a trattenere nella mente, acchiappandone il significato; ho raccontato di case cadute scansate e di crepe che mi hanno toccato; ho scritto di sveglie all’alba e di camminate mattutine, quando ti fermi ad attendere il tram delle 7.08 e i lampioni notturni si spengono; ho scritto di treni, di vagoni che non si incontrano mai e di biciclette che sfrecciano come i motorini a Salerno, mentre ti giri a guardarne una di bicicletta; ho scritto di un lunedì alle 7.00 che urla ancora dentro e di notti di veglia che sembrava non dovessero finire mai. Ho scritto di lontananze che sanno farsi vicine e di fatti veri che sono e resteranno sempre tali e, forse, tra le poche parole che davvero saranno scritte.

Non ho scritto niente di tutto ciò, non c’è un nero che abbia segnato il bianco di un singolo foglio: eppure è tutto segnato, indelebile.

(In sottofondo ci sono le parole delle chat sul telefonino, le mail procrastinate, le cose tristi, i fatti da dirsi perché la distanza pesa e dobbiamo accorciare i chilometri, le chat sceme sul telefonino che ci fanno ridere assai, le parole dette e quelle taciute e le sorprese rivelate che sanno ancora di sorpresa perché le parole, quelle vere, quelle belle, hanno il sapore della meraviglia).

martedì 29 maggio 2018

Locken. Curly. Bouclés. Ricci. Come imparare il tedesco al supermercato


Vorrei non sfatare il luogo comune di noi italiani all’estero. Quello secondo il quale abbiamo una lingua franca gestuale che ci permette di comunicare in ogni luogo. Ma prima di non sfatare questo luogo comune devo restringere il campo d’azione a un’area geografica di origine delimitata: il Sud. Sono stata in Germania a fare la spesa, e per spesa non intendo “spese”, “shopping”, ma la spesa della quotidianità casalinga, quella che vai aprendo mobili e tiretti per vedere se l’ammorbidente è finito, se il dentifricio è in modalità riserva, se la carta igienica (Dio benedica l’inventore!) è lì lì per finire.
La mia comunicazione standard si basa sull’italiano ma, all’occorrenza, vengono in mio aiuto il francese e l’inglese. Ed è proprio la lingua degli Angli e dei Sassoni ad aver fatto da trait d’union tra me e la commessa del DM, catena di supermercati tedesca, quando dopo una passeggiata sul corso di Kehl (ma anche i tedeschi usano la parola “corso”?) sono entrata con il carrellino per fare la spesa.
In principio fu lo shampoo, e lo shampoo è stato l’ostacolo da superare sul mio cammino perché, se la parola SHAMPOO campeggia a grandi lettere su tutte le confezioni (dopo la carta igienica, Dio salvi la comunicazione iconica!), la specificità del prodotto “per capelli ricci” risultava irrintracciabile. Ora, è vero che sono chiara di capelli e colori vari, ho un nome di origine tedesca e potrei mimetizzarmi tra le donne teutoniche di piccola taglia, ma a parte KINDER, GUTEN MORGEN, KRANKENHAUS, KÖNIGSPLATZ e poche altre parole, io di tedesco non capisco una cippa.
Ed è qui che la comunicatrice Made in Terronia che è in me ha avuto la meglio. Alla commessa tedesca che parlava un po’ di inglese mi sono approcciata chiedendo in inglese le indicazioni per rintracciare il corrispettivo tedesco di CURLY HAIR, ma è stato l’istintivo gesto della mano sinistra che, supportato dal movimento di base dell’avambraccio e completato dall’estensione e rotazione dell’indice relativo, ha chiuso con efficacia il mio pacchetto comunicativo e mi ha permesso di raggiungere l’obiettivo. Immagina, puoi.
Con la certezza di un nuovo significato acquisito mi sono quindi recata presso gli scaffali dei prodotti e ho cercato il mio shampoo per capelli LOCKEN.

PS. La varietà di shampoo, naturalmente, comprendeva un incrocio di altre esigenze e qualità che avrei voluto considerare per l’acquisto, ma a sto giro accontentiamoci di aver trattato i ricci.

domenica 15 aprile 2018

Take care


Una mano sull’altra. Un gesto che ha tanti significati e che ricordo di aver impresso negli occhi e nella memoria sin da anni a due cifre e tre decadi fa.

Sul volo da Napoli a Basilea un uomo e una donna sono seduti accanto a me. Lui straniero, forse tedesco, lei probabilmente italiana o masticatrice della mia lingua. La mano di lei su quella di lui, i motori che vanno veloci per raggiungere quel rombo forte da ruote in velocità crescente fino a far staccare da terra quel grosso aggeggio che conteneva circa 160 storie. È proprio negli istanti immediatamente precedenti al distacco delle ruote da terra che la pressione delle mani si fa più forte, mentre le dita un po’ sbiancano, come succede quando si stringe qualcosa, qualcuno. Sul volto di lui un’espressione vitrea, di evidente paura; sul volto di lei una pace rassicurante, il tentativo osmotico di far passare un po’ di serenità attraverso quei canali di mani.

Lungo le strade di Strasburgo una madre posa la sua mano su quella del suo bambino. La prende, le sfugge – perché il desiderio di corsa e libertà sono un istinto irrefrenabile all’uscita da scuola – poi la riprende. Quella mano grande che stringe la mano piccola è un porto sicuro, una bussola esatta, la stella polare dell’esserci.

In una sala da ballo poco fuori Illkirch mani si prendono per mano e danno vita alla danza.
Sono mani allenate, mani leggere, mani che si accolgono e si guidano vicendevolmente, in un’armonia di movimenti e leggiadria di cuori. In quella sala da ballo una mano prende la mia tra le mani. È una mano sconosciuta, appartengono a occhi sorridenti e sorriso rassicurante, pronti ad accogliere il terrore dei miei occhi e la paura del mio corpo. Sono mani esperte. Mi rasserenano, mi guidano e mi accompagnano. Si prendono cura di me.

Sul volo da Basilea a Napoli un uomo e una donna sono seduti al mio fianco. Sono stati giorni di occhi pieni e pensieri nebulosi, di riflessioni e fardelli, di gioie e corse e risate, di pizzicotti amorosi e abbracci e baci e parole straniere. La testa e il cuore non si accordano e guardo queste mani ma non le vedo. Mi ci vuole un volo quasi completo, una dormita, un risveglio, una stiracchiata e un po’ di perturbazioni per capire. Sono le mani di un uomo e di una donna che hanno lasciato la loro terra, hanno iniziato una nuova vita in una terra lontana, hanno seminato e accudito il frutto di tanto faticare. Sono le mani di un uomo ottantenne con il cuore di un giovane, di una donna piccola e dal sorriso discreto che ha custodito il segreto di un amore restando sempre un passo indietro consapevole di essere, invece, alla guida poco più avanti. Sono mani che si sono mosse per articolare storie e ricordi, città e paesi, figli e amici, a me che ero seduta lì vicino. Sono mani che si prendono cura e che custodiscono una lunga storia.

“Take care”: mi piace questo verbo che dice “stai attento” per dire più comunemente “prenditi cura”, perché la cura per qualcosa, per qualcuno, si concretizza nell’attenzione donata.

Poi ci sono le mani piccole piccole che si prendono per mano. Sono sogni teneri e speranze delicate.

domenica 11 marzo 2018

Contenitori vuoti e stadi pieni


Questa vittoria è per e tutti quelli che lo hanno amato.
Per sempre
Ci sono giorni che nascono strani. Iniziano nel cuore della notte in un momento non sempre riconoscibile o identificabile, in un ante e post quam indecifrabile, e poi partono. Partono mentre stai facendo qualcosa o niente, mentre stai tornando a casa o stai uscendo. Partono mentre hai appena dato o ricevuto la più bella notizia possibile; partono mentre sta mettendo radici la bellezza o la tristezza, la verità o la menzogna, il giusto o ciò che giusto non è.

Stanotte ho chiuso la porta di casa molto tardi. In quel momento ho guardato l’orologio e ho pensato: chissà a che ora è accaduto.

Una settimana fa, mentre al mattino sprimacciavo occhi e viso che ancora avevano la forma del cuscino, mentre il cellulare si riattivava e le voci digitali del mondo bussavano al mio telefono, una notifica cancella ogni traccia di sonno. La morte di Davide Astori, calciatore e capitano della Fiorentina.

Era domenica e a casa eravamo con la testa ai fatti della domenica: il default erano i campi di calcio, il pre partita, i rituali, gli ultimi aggiornamenti del Fantacalcio di mio fratello e tutte le risate che nomi impossibili di quasi-squadre di una realtà fantavera possono far nascere. Ma era soprattutto “la” domenica, quella attesa da mesi, forse da anni, di elezioni che sanno di tutto e di niente, di risultati scontati ma anche no, di una politica che aveva provato a entrare per mesi nelle nostre casi per farci venire la voglia di uscire da casa e andare nelle scuole, nelle sezioni, nelle cabine elettorali e mettere il segno della croce su un destino da provare a costruire.

Io quella notte mi sono interrogata sul mio voto, su come esprimerlo – perché io ho sempre pensato di volerlo esprimere un voto, vero o nullo che possa essere –, mi sono chiesta verso chi esprimerlo. Nel vuoto megagalattico della politica italiana – si, c’è un gran vuoto riempito da chiasso e volgarità – io quella notte ho deciso a chi dare la mia delega a sedersi sugli scranni dei luoghi in cui si (dovrebbe) fa(re) l’Italia. E niente, io la testa la tenevo lì, ed era una testa appesantita perché questa volta, più di altre, scegliere cosa-chi votare è stata dura.

Quel risveglio lo vivo al rallentatore, anche ora mentre scrivo e ricordo e rivivo, e la scena è chiara. Ovatta è scesa nelle orecchie, tutto si è attutito. Per me, ma non solo. Quel giorno, mentre da Udine si rincorrevano notizie, il silenzio calava nel chiassoso mondo calcistico. “Che strano”, avevamo pensato a casa quando iniziava a girare la notizia del rinvio della giornata di calcio, “chissà cosa è accaduto. Probabilmente hanno scoperto una combine e avranno deciso di fermare tutte le partite per evitare strani giri di risultati”. Questo il mio pensiero del “prima”, perché il calcio che tanto mi piace – come la politica – mi appassiona ma non è per niente limpido. E invece, purtroppo, quella mattina era tutto troppo chiaro. Nessuna partita truccata, nessuna scommessa. Uno strano scherzo del destino, un tiro mancino, un risveglio tragico – per chi, quel giorno, ha aperto gli occhi.

Quando muore un giovane si interpella la natura. “È contro la natura”, diceva mia nonna, “i padri non seppelliscono i figli”. È un dolore che è un nodo che toglie via l’aria, quello che blocca la vita e il respiro di un genitore che sopravvive a un figlio.

Quanti sono i figli che muoiono ogni giorno? Quante sono le tragedie che si consumano, che si perpetrano, sotto i nostri occhi? Sotto occhi conniventi? Sotto occhi impotenti? Quante morti si consumano nel silenzio? Taciute? Solitarie? Dimenticate? Tante, troppe, inenarrabili. Forse non basterebbero righe e quadretti dei fogli del mondo, non si starebbe sulla notizia.

Cosa fa di “uno solo” il fulcro di un dolore così grande?

Domenica pomeriggio sono andata alla ricerca della bellezza. Il cielo plumbeo, l’aria ferma, immobile, ho camminato tra i templi di Paestum, in un luogo che racchiude una storia millenaria, che parla di uomini che non ci sono più eppure sono ancora nei massi intarsiati e in quelli smussati dal tempo, nella memoria di ciò che era e nella consapevolezza di ciò che resta. Tra le pietre magnifiche ho scorto espressioni, ho percepito sentimenti. In una colonna ho rivisto i tratti di un uomo, sembrava quasi uno stupore misto a dolore. Qualche giorno dopo, a casa, ho pensato ad Achille, al dolore che gli scompone il viso quando vede Patroclo, l’amico amato, vinto dal sonno della morte. Ho pensato a chi, domenica 4 marzo, ha scorto nel sonno placido di un giovane il volto di un riposo perenne che nulla muta e tutto trasforma.

«e Achille tra loro diede inizio al compianto,
mettendo le mani sterminatrici sul petto del suo compagno,
e gemendo sempre, come un leone dalla bella criniera
al quale un cacciatore ha rapito i cuccioli nella selva fitta,
e lui si angoscia d’esser giunto tardi» (Iliade, XVIII, 316-319).

Questa che si sta chiudendo è stata una settimana di compianto collettivo, iniziata nelle cabine elettorali, protrattasi in una notte di spoglio e spoglie, continuata tra tutte le strade d’Italia che hanno portato a Firenze, per riversarsi poi nelle case, attraverso il canto di aedi 2.0 che hanno parlato di un giovane che ha costruito la vita calciando un pallone in pantaloncini e maglietta, facendosi uomo e restando umano.

Perché la morte di uno, di uno solo tra tanti, ha suscitato un'emozione collettiva così forte?

Tra le tante parole che ho ascoltato mi hanno colpito quelle di un cronista che ha detto su per giù questo: quando li vedi in campo, i calciatori sembrano degli uomini adulti, quasi ingobbiti da spinte e pressioni che hanno una genesi più da S.P.A. che da squadra di calcio, persone di esperienza da inneggiare o contro cui scagliarsi per una partita di pallone. Poi li vedi fuori e sono persone che vivono una vita – molte volte privilegiata – ma che nelle sue fondamenta ha radici comuni a tutti: si nasce in una famiglia, si cresce in una comunità, ci si relaziona con il mondo. Ed è sul campo dell’alterità che ci si gioca la damnatio memoriae o l’immortalità. Di questo ragazzo di 31 anni, passato agli occhi del mondo come difensore con la maglia numero 13, si è scoperto un mondo di bellezza e verità da fare invidia ai fregi del Tempio di Nettuno a Paestum, anni intarsiati di pazienza e dedizione, di onestà e impegno, di senso di responsabilità e serietà, di ironia e leadership – quella vera, frutto di un percorso e non della raccolta dei punti del latte. Non si può definire la vita di un uomo di cui si ha una percezione parziale, ma se come diceva mia nonna “l’albero si vede dai frutti” è proprio il feedback, il riscontro, l’interfaccia emozionale e umano di tutta questa vicenda – al di là di propaggini parossistiche – a dare il senso di questa giovane vita che a un certo punto si è fermata.

Troppe volte, troppo spesso, quasi sempre tra paradosso ed esasperazione, i campi di calcio assurgono a templi delle divinità nostrane, ad agorà pubbliche, a luoghi dove sembra plausibile il passaggio dell’unico senso di vita possibile. Ma ciò che resta nei pilastri intarsiati della vita di Davide Astori parte da una genesi diametralmente opposta. È il figlio educato dai genitori, cresciuto alla scuola di un’alterità allenata nel rapporto tra fratelli, accresciuta e messa in discussione nei diversi spazi della vita comunitaria in cui il rispetto dell’altro non è mai venuto meno, amplificatasi tra spogliatoi e campi di pallone, divenuta a sua volta fonte di educazione nel ruolo – di vita – di padre. È la storia del giocatore che è innanzitutto uomo e la cui morte, proprio per questo, spezza il fiato in gola, accelera il magone, fa sgorgare lacrime. Per una settimana in tv lo share non l’hanno segnato chiacchiere inutili, litigi, scontri, ma il rincorrersi di immagini di vita che esorcizza la morte, di racconti che provano a rallentare il taglio del filo delle Moire inesorabili, di occhi lucidi davvero e non per finta o per necessità.

Il professore di sociologia, all’università, diceva sempre: “è un problema di contenitori. I contenitori sociali sono vuoti, non ci sono più esempi a cui attingere. La politica, le istituzioni, i grandi catalizzatori dell’attenzione civile non esistono più o non hanno più la forza e la capacità di attrarre”. Si cerca di attingere acqua altrove, allora, e non sempre è acqua limpida, il più delle volte è a dir poco stagnante. Il calcio non può essere un sostitutivo, un esempio tout court, ma è senza dubbio un catalizzatore di sogni sin da bambini.

Il dinoccolato Astori – se lo penso bambino, alto così come è, me lo immagino con questa andatura tipica da quello più alto della classe – ha coltivato un sogno, lo ha irrorato di grazia e pazienza, di talento e impegno, senza scorciatoie o facilitazioni e lo ha realizzato, incarnato, vissuto.

Se mi guardo attorno e cerco gli esemplari umani “in potenza” del domani vedo tanti tentativi di aborto, vedo sogni che arrivano a stento a fecondare l’ovulo della determinazione, perché qua la vita si è fatta sterile e la dignità è continuamente calpestata.

Cosa resta dopo di noi? Qual è il lascito di una vita?

In questa settimana sui media, giovedì in Basilica a Santa Croce e in quella grande piazza e sui balconi a Firenze, ieri all’Olimpico a Roma, oggi al Franchi a Firenze: in questi luoghi si sono ritrovati in tanti, con semplicità e spontaneità, senza demagogia, per la morte di “uno solo”. Io me lo chiedo perché “uno” può scatenare tanto e far dire molto: forse c’è una qualità che va oltre la quantità, c’è un silenzio che sa coltivare nel nascondimento più di tante parole urlate, c’è una verità che non può essere elusa. Ed è emersa domenica scorsa, ma non dalle urne.

Il 5 settembre 1989, dopo la morte tragica di Gaetano Scirea avvenuta a causa di un incidente automobilistico, in quella Polonia post elezioni che aveva portato in parlamento l’intellettuale di Solidarnosc Adam Michnik, il giornalista Andrea Tarquini scriveva su Repubblica: «In Polonia la coabitazione passa anche dai campi di calcio, e questo trasforma un lutto dello sport in lutto di tutti».

Ancora torno con la mente alla domanda di stanotte: chissà quando è arrivato il momento che ha reciso il filo del tempo della vita di quel singolo uomo. Chissà quando il silenzio della notte si è fatto silenzio davvero. Chissà se la commozione di una settimana lascerà qualcosa di buono sui campi e nei palazzi del calcio, amato e odiato, osannato e vituperato. E non solo là.

Domani è lunedì e si ricomincia. Il seme che cade e si spacca e muore, per attecchire e portare frutto deve trovare un terreno buono, fecondo, pronto.

martedì 13 febbraio 2018

Vademecum per il 68° Festival di Sanremo. Quinta serata. Commenti e inciuci.

Ci siamo, l’ultima serata arrivò. Martedì sera sembrava lontana eppure eccola qua. Il bel Claudio entra di rosso vestito, che si sa, il rosso è passione e sofferenza.
Anteprima: quanta sana invidia per la bella moglie di Favino. Eh.
Entra Ultimo che ieri ha vinto e, neo big, apre l’ultima puntata. Quando si caricano troppo le persone e si chiede troppo e troppo e troppo, capita che poi ci ricordiamo che siamo fatti di carne, piccoli e fallibili, e che il giovane vincitore incappi in una nota non sua e cada dalla scala musicale. Pizzirillo, oggi in sala stampa e anche ora mi ha sinceramente fatto tenerezza.
Poi prende la parola la Carlucci e capisce assi per figura e fa una grande markettttta a Ballando con le stelle.
E la Hunziker, com’è? MERAVIGLIOSA!
Passame er sale e parte il coro sul ritornello. Barbarossa è come il vino buono.
Red Canzian oggi in sala stampa è stato eccezionale. È rock e ha una comunicativa che accende. La canzone non è tra quelle che mi hanno particolarmente colpito ma lui ha voce, ritmo, la musica è coinvolgente. Non sembra sul piano del declino, in un certo modo è come se si stesse riallacciando alle sue origini.
Eccola qua la canzone di Giovanna, di Core e mia: Frida, MAI MAI MAI. E che te lo dico a fare. Eh! Io non so voi, ma quando vedo Stash de I Kolors mi viene in mente una persona che mi disse che tiene il ciuffo favezo. E niente, io penso ai toupet tipo Lino Banfi che metteva la retina nei B-movie degli anni 70-80.
Scusate, ma quanto è fresco il compagno della Pausini?
Scusate, ma quanto è fresco Scanzi? Di cui nel post di ieri.

Non posso commentare Avrai, sono in quella terra di mezzo in cui non è dato vedere oltre. Posso un po’ viverla, e vederla sempre più andare via, lontana… “Avrai avrai avrai il tuo tempo per andar lontano… ti fermerai sognando”.
Ho capto perché piace la Pausini, al di là delle sue innegabili doti: è verace. La sua “shz” rimasta così, senza dizione o correzione, e quella corsa fuori verso il pubblico, a mo’ di concerto da stadio, me l’hanno fatta piacere. Brava Laura!
Gli Elii mi hanno commosso: la loro canzone è a momenti sottotono, stanca come forse un po’ loro. Sentirli cantare con i Neri per Caso è bello, perché la stima tra artisti può esistere, soprattutto tra artisti di valore. In conferenza stampa Elio ha detto che si sono già sciolti e che stanno salutando il pubblico, ma io spero che qualche strano fenomeno fisico al contrario faccia ricomporre tutto lo sciolto che avanza.
Gli occhiali da sole della Hunziker fan pendant con la giacca di Baglioni. Quest’anno perdere tempo per i cambi di scena è stato divertente, meno stucchevole e da statue imbalsamate. Bello quel Claudio, che è tosto e mica facile, ma ha saputo creare la squadra giusta. E chest’è.
Scusate ma mi sono distratta: Rubino forse mi fa cambiare idea e potrei votarlo (sto uagliono da due giorni mi emoziona), i Decibel li canterò assai, la Vanoni con Bungaro e Pacifico sono wonderful, mi pare di non aver perso altro. Caccamo stona, era meglio con Arisa.
Una cosa bella di questa esperienza è stata la condivisione, da qui e da Salerno. Questa cosa rara, con pochi e per pochi, è stata importante.
E poi arrivano loro: qui cantiamo e balliamo con “la vecchia che balla!!!”.
Errata corrige: Rubino, ti auguro tanta fortuna mo, te la meriti, ma voto il mio primo imprinting sanremese: Lo Stato Sociale.
Il duo Facchinetti-Fogli mi mette ansia: la consapevolezza del loro non farcela mi agita perché poi, alla fine, mi dispiace per le perculate che gli fanno, hanno una carriera alle spalle notevolissima.
Questa è bella, questa cresce e piglia e coinvolge. Si mi piace. E mi piace anche il testo. Diodato e Roy Paci. Bravo, bravi. Bella bella bella.
Favino stasera fa proprio il suo mestiere, e sceglie di farlo con un monologo che in questa fase di campagna elettorale è una bella botta e cacchio se mi fa piacere. Dove sono i bancarielli di Salvini, le loro bandiere, lo ius soli non riconosciuto? “Andate a fanculo”, proprio come nel monologo. Le lacrime di Favino, che meraviglia di verità. Di dignità. “Se non c’è strada dentro il cuore degli altri, prima o poi si traccerà”. Fiorella Mannoia e Claudio Baglioni chiudono il cerchio di un piccolo momento di bellezza.
Non smettere mai di cercarmi ha il sapore di una promessa e, “per quando verrò a trovarti, in tutto quello che scrivi”, della promessa più bella.
Fabrizio Moro (con Ermal Meta) che fa “non mi avete fatto niente” mi sembra un po’ quei bambini che ti guardano e te lo dicono, così, con quella sfacciataggine di chi, invece, ha avuto molto più di niente ma non te lo vuole dire perché non si vuole arrendere. E allora non è un dispetto, è una difesa a oltranza, è un atto di resistenza.
Poi mi sono persa tra varie cose di qua, video per documentare cori e sbracamenti della sala stampa, parole da leggere, hanno pure finito di cantare (ah comunque Le Vibrazioni, il chitarrista, tanta roba…).
Pierfrancesco Favino, Edoardo Leo. La commistione? È giusto così, ed è giusto scherzarci su.
La Impacciatore che sembra Maria Antonietta? E Favino che va sotto la gonna? E lei che cade a culo a terra? Che canzone intelligente!


Poi capita che ci siano corse, servizi da chiudere, valige da ricomporre, taxi da prendere, treni da rincorrere, respiri da rifiatare che poi si riparte. Capita che nel frattempo passino davanti ai tuoi occhi personaggi e vincitori, quelli che normalmente albergano al di là del tubo catodico, quelli che guardi da sotto il plaid e ti fanno volare pensieri e immaginazione.
Cosa è stato questo Sanremo 2018? “Ti sei divertita? Avrai fatto una bella esperienza, avrai visto cose…”. Non lo so ancora cosa è stato: nel frattempo, mumble rumble…

Stop.
See you.



sabato 10 febbraio 2018

Vademecum per il 68° Festival di Sanremo. Quarta serata. Commenti e inciuci.

Questa serata arriva al termine di una giornata che manco li cani, davvero. Pensavo che i 20 chilometri fortunelli di distanza dal B&B all’Ariston fossero stati la parte più pesante della settimana e, invece, il meglio doveva ancora venire. Ma jamm annanz.
Questa sera sono in sala stampa roof Ariston, come la prima sera, voterò per i cantanti in gara e osserverò il mondo composito che mi circonda.
C’è la finale dei giovani, i duetti dei big. Lampadine a intermittenza in apertura e il trio Baglioni-Favino-Hunziker in giacca di pelle a intonare una very rock Heidi. Via allo spettacolo con tanto di corpo di ballo di giovani in jeans e camicia, al passo zombie di Thrilleriana memoria.
Michelle è uno spettacolo, che abito, che meraviglia. E come sempre #perfortunafavinocè
Scusate, ma quando vedo Allevi mi viene #disadattatoèbello Capita anche a voi?
E su Andrea Scanzi, be’, potrei aprire un romanzo. Me lo guardo su La7 quando è ospite della Gruber a Otto e mezzo. Ammirevolissimo (che non esiste ma mi piace così).
Domanda: ma perché Leonardo Monteiro lo truccano così? Al di là di facili battute sul colorito, se proprio volete truccarlo potreste farlo senza trasformarlo in Grande Capo Trecciolina.
Oh la là! Ma avete visto il Favino? Ma gli dona pure l’argentato, e non gli fa neanche effetto domopak cuki gelo <3
Mirkoeilcane ha un pezzo impegnato, non lo scopro certo io. Qui piace molto. Inutile dire che ricorda il Faletti di Minchia signor tenente, come lui stesso ha detto. La canzone è tosta, un ossimoro titolo-testo che fa un po’ effetto pugno allo stomaco.
Ma ve lo devo dire quello che è accaduto qua appena è uscita la sorella farlocca di Belen? Dopo la farfallina, il fiorellino di pizzo vedo-e-ancora-vedo di Alice Caioli. Il commento sulla donzella è riservato e confidenziale.
Ultimo è carino, piace, sul web è famoso. Fa il tosto (scusate sono distratta: il chitarrista biondo dell’orchestra – Luca Colombo – lo amo troppo).
Giulia Casieri ha una voce bella davvero, tra le donne è quella che più mi piace (il testo non è un granché, ma a questo livello è una rarità).
Scusate ma Baglioni che giacca s’è mis? Nun s po’ guardà!
Mudimbi, il preferito della Collina, ci piace. Canzone simpatica, ritmata, bella presenza scenica, bella voce, si fa cantare e si, votiamolo.
Eva ha una bella voce, è bella lei, un po’ troppo scritta ‘nguollo e con un orecchino al naso di pessimo gusto, secondo me, ma non è male.
Il congiuntivo, come precedentemente detto, ha il mio amore in_condizionale, ops, incondizionato.
L’altro giorno Renzo Rubino è venuto in sala stampa, un ragazzo desideroso di parlare dopo tanta timidezza e chiusura. Ha raccontato che aveva pensato di abbandonare la musica, di fare altro. Ogni canzone che porta a Sanremo è una storia di vita, una cosa sviscerata con cicatrici annesse. Oggi hanno chiesto a Claudio Baglioni, in conferenza stampa, se per scrivere un testo importante, se per scrivere bene, qualcosa di memorabile, si debba soffrire, se debbano mostrare le cicatrici, i segni. Ecco, Renzo Rubino mi sembra uno che scriva cicatrici.
Ve l’ho già detto che adoro Favino, sì? È emerso abbastantemente?
Mo arriva Skin, vediamo se con Le Vibrazioni appicciano l’Ariston. Wow, io Skin la sento sulla pelle letteralmente, ‘ngopp a skin, pecun on skin. Che bella che è lei, eh.
MESSAGGIO PER MIO FRATELLO: questa di cui sopra te la canto mo che torno a casa.
Noemi e Paola Turci sono una scarica di adrenalina. Non smettere mai di cercarmi stasera è bellissima. “In ogni cosa che vivi”.
Uh… Vessicchione… #GniGni
A me l’inizio della canzone di Mario Biondi fa venire in mente “Chiare dolci fresche acque”. Stasera un po’ brasileira, un po’ bossanova (m par), un po’ non in italiano, è perfetta. Mariolone ce lo aveva confidato in sala stampa: questa canzone per lui non può essere fatta in inglese ma in italiana, in alternativa in portugheisc.
Annalisa ha una bella gonna coccodè. Lui ciuffo e giacca Elvis. Bella coppia. Belle voci però.
Comunque sto #GniGni spopola ormai.
Questi sono i miei preferiti: Lo Stato Sociale con Paolo Rossi e il Piccolo Coro Mariele Ventre dell’Antoniano. Già solo le t-shirt le voglio. Questa esibizione me la sono goduta e, anziché scrivere, le mani le ho usate per batterle e fare casino con loro. Quindi, se non li avete visti, non potete capire e vi siete persi una grande cosa.
Giannona mia bella, arriva toma toma e stev pur carenn. C’ha il po’ delle scarpe minimal. Lei è semplicemente fenomenale (scontato ma è accussì).
“Un lento, l’ultimo, oramai…”
Io la adoro, Gianna Nannini. In quel lento “lento”, con il volto nascosto tra le braccia di Baglioni, si è visto quello che non ci è stato dato vedere. Tutta la tenerezza e l’emozione di una donna che canta il rock perché ha il cuore troppo tenero.
Ma quel Favino? Bello di mamma sua!
Ora, la canzone di Max è per me da vittoria, e non lo nego dalla prima serata. Cos’altro avrà saputo creare con quella meraviglia di poesia?
Il bello della diretta! Poteva mancare l’errore tecnico? La canzone dei Decibel più la sento e più mi piace. Con Midge Ure ha un breathe diverso (non mi picchiate).
È stato difficile per Favino non ridere con la Vanoni (ribattezzata #lavecchia in sala stampa). Che vecchia, però! Che eleganza. Questa canzone la può cantare solo lei, e loro, e Preziosi. Amarsi, lasciarsi, amarsi. Perdonarsi. “Giorno per giorno, senza sapere… ma voglio vedere”. Applausi in sala stampa.
La botta di energia di Roy Paci ci vuole a quest’ora. (Ma Favino, lo vedete?). Mo va be’, mi piglia proprio e assai. Senza ritegno mi ritrovo a picchiettare mani anelli e ballare. Bello il crescendo di archi e fiati. Via! “Dice che torneremo a guardare il cielo…”.
Giusy Ferreri tiene la giacca di Facchinetti ‘nguollo. Qui mi scompiscio, perché “muoarii” lo hanno fatto dire alla Ferrei ma “ciuee” lo ha detto e, be’, qui è scattato un coro che rido ancora.
Vincitore Nuove Proposte. Qui si fa facile: gli Ultimo saranno il primo.
Questa versione de Il coraggio di ogni giorno di Enzo Avitabile e Peppe Servillo mi incuriosisce, perché i singoli mi piacciono e sono sicura che la loro somma sarà un gran bel numero. Ecco, la scelta di stasera concretizza quella nota di mediterraneo che sentivo e che ho provato, con parole atone, a rendere. Ma la voce di Daby Touré e l’armonia di voci e strumenti si mescola ed è bello, si è davvero bello. Sento questa canzone e viene voglia di dire “Io non mi sono mai sentito così vivo”.
Incursioni in sala: la Impacciatore, ah la Impacciatore!
Ermal Meta e Fabrizio Moro scelgono Simone Cristicchi per portare parole fatte di carne alla loro esibizione. Sono le parole che Antoine Leiris, giornalista radiofonicoi, ha scritto ai terroristi che al Bataclan hanno ucciso sua moglie. È il monologo “Non avrete il mio odio” e centra il bersaglio.
La Sciarelli prosegue la tradizione della narrazione distrutta delle canzoni di Baglioni. Al direttore piace prendersi in giro e star in scena, un po’ dissacrandosi.
Arisa sta vivendo una nuova adolescenza. E non è solo per l’apparecchio ai denti o le extension ai capelli, ma per una fragilità che mi sembra stia emergendo più che in passato. Va che la canzone sia più bella con la sua partecipazione.
Non sono riuscita a finire di scrivere “live”. Prometto di terminare il prima possibile!

SEE YOU SOON…

giovedì 8 febbraio 2018

Vademecum per il 68° Festival di Sanremo. Terza serata. Commenti e inciuci.

Eccoci qua, addivanati su riposanti sedute per poggiare le stanche terga e gustare la terza puntata del Festival. Premessa: sono arrivata sulle note finali dell’intro di Baglioni, in tempo per prendermi gli applausi tributati al fido direttore artistico (Claudiù, facimm a metà).
Capitolo New Proposals: ieri sera mi sono piaciuti tutti e quattro, oggi il mio pollice in su va a Mudimbi e Ultimo, Eva non male, Leonardo Monteiro out.
#perfortunafavinocè
Passato senza infamia e senza lode Caccamo, il mio plauso va a loro, il mio voto scelto: lo Stato Sociale. Va be’, qui in sala stampa è scattato il coro, la ballata, l’urlo, gli applausi. Lo Stato Sociale ci fa scatenare. Lo Stato Sociale m' piac assaje.
Virginia Raffaele prova a fare la Fiorello della terza serata, con stile diverso ma si, fa ride. Sisisi, superlativa. Povero Claudiuccio, perculato come pochi su quel palco là. AZZ però! Baglioni si smolla e scioglie per imitare la Raffaele #wowissimo
Poi arrivano i Negramaro, che finalmente si sono ritrovati e hanno ricominciato a fare bella musica, e cantano la mia canzone baglioniana preferita. Ma la fallano: nonono, Poster non si fa così. #aridateceposter
La Hunziker sta in modalità registrata: “Tu con chi duetterai venerdì?” (Qualcuno le dica che venerdì è domani sera). Risposta artista: (...). Replica Hunziker in loop: “Aaahhhhh, che bello!”.
Aria di casa: arrivano Avitabile e Servillo. La loro musica mi fa pensare ai ritmi di mare, alla tradizione dei napoletani che la musica la fanno che gli esce da dentro. Penso a Pino Daniele, a Eugenio Bennato, a quei napoletani che la musica è “Io no, io non mi sono mai sentito così vivo” (cit. canzone). E in certi luoghi da cui nasce questa musica davvero ci vuole “il coraggio di ogni giorno”. A me la cosa che mi fa tenerezza e stima è l’umiltà di Avitabile, un basso profilo impregnato di dignità.
Ridiamo con robottino Baglioni e #perfortunafavinocè
Arriva Max Gazzè: shhh… poesia.
Genti che vedete #Sanremo2018, cantano Facchinetti e Fogli: se dovete fare pipì, è questo il momento. #muoari Ora, Roby, dico a te. A te che in sala stampa preferivi non essere avvicinato troppo – che senza trucco s’ ver tutt cos: hai fatto una grande carriera, “Diuo dellue cittuà e duelle iummuensiutuà” non se lo scorderà mai nessuno finché campa. Ma lasciamo questo bel ricordo. Su.
Io ve lo dico con serena semplicità: a me sta storia della donna m’a rotto. L’approvazione nazional popolare della figura femminile ne è l’ennesimo svilimento. Io lo so che le cose bisogna pur dirle, amplificarle, farle sentire, ma non è una cosa così, un fiocchetto o una presidente di Camera de Deputati che cambia la storia. Che poi è la quotidianità che fa la differenza, i silenzi che resteranno tali.
MetaMoro – quasi una figura mitologica qui in sala stampa – sono sul palco con un titolo che mai come stasera ha un significato pieno. “Non mi avete fatto niente” nonostante polemiche sterili che cercavano, forse, solo una polemica sanremese che quest’anno stenta ad arrivare. E io negli occhi di Fabrizio Moro vedo quella cazzimma che lui ed Ermal hanno dovuto tenere serrata in questi due giorni. E niente, io sono per la loro riammissione – Eccola Ermelinda che canta!
Noemi ci regala un simpatico siparietto. Ahpperò.
MESSAGGIO ANTIPROMOZIONALE: ma sta storia dei Baci Perugina e le frasi di Emma, eh? Non basta già così? No, eh.
Scusate, ma per James Taylor vale la clausola di ieri di Sting? Ebbasta con questa autarchia italica! Fateli cantare accussì comm magnan! Poi, dopo, parla e canta come sa, e si sente.
Reprise Noemi. Messaggio per la Contessadimontescapezzo: se mi trovate un vestito come quello di Noemi le esco!
Questa Giorgia androgina ci piace assai. Lei è fantastica, e con James Taylor, insieme, statte proprio.
Emma D’Aquino che duetta con Baglioni è stata la sintesi della soddisfazione professionale: (ja, magnatevela un’emozione!). Perché, e che caspit, mica amma sul faticà! #questoèilgiornalismochecipiace #MaiMaiMaiMaiMaUnaGioiaOgniTantoDai
Io Danilo Rea e Gino Paoli non ve li posso commentare. E non perché mentre cantavano, no anzi, poetavano, stavo anche parlando e pensando etc etc. Io questi due qua, con Claudiuccio bello, non ve li posso dire perché è tipo “l’emozione non ha voce”, e anche se “fai finta di non lasciarmi mai” c’è sempre quel “cielo in una stanza” a dire…
Ora, dico, questo bel momento qua non lo potevate fare prima di Mariolone Biondi? Puvriell ad aspettare così… vero è che Mario non sfigura mai e stasera ha cantato molto bene, ma m’ par brutt proprio che abbia dovuto aspettare. Era solo impressione mia o quando cantava pareva che parlasse in inglese? Perché Biondi, quando canta, è inglese. E poi a un certo punto non ce li vedevate bene Fred Astaire e Ginger Rogers?
Va dato merito a Baglioni di non aver dimenticato nessuno, almeno fino a poco prima di farli piùomeno morire: Nino Frassica mi fa ridere assai, però potevano evitare la cosa del malore di Remigi (#checazzipaura). La battuta del 47 l’avete capita??? (Leggi la soluzione in fondo al post*).
“Sarà per te” di Nuti mi fa pensare a cose che non hanno niente a che fare con Sanremo, o forse anche sì, ma a discorsi su Sanremo, musica, autori, storie, vita, università, cose lontane che guarda un po’ tu se Claudia Pandolfi e Claudio Santamaria dovevano fare sta cosa qua. Ma bravi eh, bravi davvero.
Che dire della classifica? Queste erano le posizioni che si erano delineate martedì sera e, devo dire, mi ci ritrovo. Vediamo cosa emergerà sabato ma intanto, domani, attendiamo la vittoria tra le Nuove Proposte e i duetti.
Aridaje con la sigla (che poi la Hunziker se la sogna pure la notte – giuro, lo ha dichiarato stamattina in conferenza stampa. Mo capisco perché pensa a Tommasino…).
#popopopopopopopopopopopopo

Stop.
Fine terza serata.

*47= morto che parla. 


Vademecum per il 68° Festival di Sanremo. Seconda serata. Commenti e inciuci.


La seconda serata inizia con l’abito fiabesco della Stuzziker, accompagnata dal fido Baglioni lungo la scalinata. I due danno vita a un siparietto Walt Disney che mira a essere simpatico: ma la mira non è centrata. Claudiuccio si fa fare di tutto, ma lei mi pare la sorellastra dispettosa più che la principessa della fiaba, la Matrigna e non Biancaneve.
#menomalechefavinocè
Le Nuove Proposte mi sono piaciute. La canzone sul congiuntivo è l’adempimento di un sogno quotidiano. Le voci sono belle, gli arrangiamenti interessanti, le parole non banali. Insomma, non sembrano la solita cosa scontata.
E poi il Volo. Li ho visti stasera in zona Ariston, mentre sul balcone preparavano l’intervista con Vincenzo Mollica. È che io faccio di tutto per farmeli piacere, ma proprio loro si impegnano a essere acidelli. Poi sul palco, nulla da dire, voci migliorate (avete studiato, eh?!), coro lirico suggestivo. Il tributo a Endrigo semplicemente bello. Livello peconi MONE ON. Chapeau.
Capisco che mi piace la canzone di Diodato e Roy Paci quando reagisco bene all’annuncio della loro canzone. Le parole non mi entusiasmano ancora, ma cazzarola se aspetto il crescendo e “l’emozione prenderci in gola” quando parte el Roy!
Stasera seguo dalla sala stampa de noartri, quella meno vip, e devo dire che sull’ingresso di “Pippone” – così ribattezzato – Baudo è partita la ola, il coro, l'applauso. Perché Sanremo è Sanremo. E Pippo Baudo pare abbia inventato anche il Festival.
Gli Elii oggi sono venuti in sala stampa. A chi tra i giornalisti si ostinava a dire “quando vi scioglierete” loro hanno continuamente risposto “Veramente ci siamo già sciolti”. E niente, cari Elii, a me sta cosa dello scioglimento mi fa venire in mente i ghiacciai che si sciolgono, e si sa che è una cosa che non va bene, è contro natura. Non siate contro natura, arrunatevi di nuovo.
Poi viene Biagio Antonacci e dice che esistono ancora i citofoni. E niente, Biagiù, ti volevo dire che io e Marika la domenica sera ci vediamo per camminare rigorosamente a Torrione, smaltire il pranzo domenicale e parlare un poco oltre il telefonino. Se ti vuoi aggregare, domenica ore 21.30. A espositezza!
Il trio fantastico per me, una delle meraviglie di questo Sanremo. Pacifico pacifica quando canta, Bungaro non è bello ma diventa affascinante. E poi la Vanoni, che quando non canta è tra l’ironico e il rincoglionito in un modo assolutamente chic. La più elegante.
#menomalechefavinocè Azz se ci sta. Sensualità a “bev’run” durante la performance del bel Pier Francesco – mia sorella Ilaria, nota talent scout, lo dice da tempo.
Sting Sting Sting, il solo vederti mi emoziona. Epperò. Amerai pure l’Italia ma non ti si può sentire parlare un italiano incomprensibile che manco il siculo stretto a Bolzano. Eppure tieni casa in Toscana, patria della lingua del Bel Paese. Non ti si capisce e a tratti stoni pure. ‘nsomma, il ragazzo è bravo ma non si applica, potrebbe fare di più. Sta cosa dell’italianità a tutti i costi ha una venatura autarchica. Poi venne Shaggy e cantarono nella madre lingua inglese. E fu sera e fu mattina, il Signore vide la cosa e vide che era cosa buona e giusta.
Quando Baglioni va al pianoforte non ci sta niente da fare, è Cassazione!
Attenzione attenzione! Rivalutazione totale Decibel: azzò e che controcanto! Ieri non li avevo ascoltati come si deve, oggi ho assistito alla loro esibizione con un fan della prima ora e ho capito una cosa che si rivela più profonda di quanto questo post, effettivamente, non sia: non suonano perché “devono” piacere ma gli piace quello che suonano, quello che fanno.
E niente, il resto è stato una corsa continua tra varie cose da fare e non sono riuscita a vedere e annotare altro. Altro giro, altra corsa!

Stop.
Fine seconda serata.

mercoledì 7 febbraio 2018

Vademecum per il 68° Festival di Sanremo. Prima serata. Commenti e inciuci.

Cosa ti piace di Sanremo?
Prendo in prestito una frase fatta e stranota, perché quando nascono i tormentoni un motivo ci sta: perché Sanremo è Sanremo. È come il pranzo la domenica, l’albero di Natale da fare entro l’Immacolata, come le abitudini che sembrano una noia e invece no, non se ne può fare a meno perché “senza” qualcosa mancherebbe. Oggi inizia il Festival. E quindi facciamo critica, apriamo le macchine da cucire e prepariamoci per un taglia e cuci di cinque sere, che una settimana di leggerezza ci deve pure stare in questa noiosa e angosciante campagna elettorale. Raccontiamo le canzoni ma senza troppe pretese. I commenti sono scritti in tempo reale, sono in sala stampa e segno quello che mi viene da dire mentre le canzoni vanno in onda.
Annalisa no. Ha scritto la canzone di un lasciamiento amoroso a quattro mani con il fidanzato. E poi si sono lasciati.
Ron, canta lui e senti Dalla, che poi cantava Dalla e sentivi Ron. Un connubio meraviglioso. Oltre i limiti e i confini del possibile. (E si, ci sta pure che a me Ron piace assai e pure Dalla).
La canzone dei Kolors la canteremo al mattino, attipo quando ci si alza, che poi bisogna lasciare le coperte e 5 minuti ancora e alzati e MAI MAI MAI MAI! Però belle le percussioni e quel WE dei coristi.
Domanda: ma alla Hunziker cosa hanno dato? Due settimane senza il marito e guarda tu, la forza dell’oRmone.
Max Gazzè la tua canzone è una poesia, una cosa magica. Maestosa la musica, piena ed emozionata l’interpretazione. La amavo già prima di sentirla solo per il titolo. Ma troppe S per te.
E comunque #perfortunafavinocè.
Fiorello risolleva le sorti dell’umore sanremese. Che le canzoni fino ad ora sono belle ma i conduttori, ‘nzomma.
La Vanoni, appena entrata, wow. Una persona malvagia mi fa: “bisogna vedere se ce la fa a cantare”. Il problema è che – altroché se ce l’ha fatta – ho solo 3 voti da esprimere.
Ermal Meta e Fabrizio Moro hanno una canzone bella e non banale. Cioè, il tema è facilmente banalizzabile, ma loro si armonizzano. Però, a vederli insieme sul palco, fanno impressione. Ermal, Moro ed Ermelinda.
Per Mario Biondi prendo in prestito le parole di Rossanza (la stessa della Vanoni, ndr). Il vocione di Mariolone Biondi è wowissima, ma “rende meglio in inglese”. Non so se perché le parole, in quel caso, non si capiscano. Fatto sta che la voce fa tutto, più delle parole.
Favino e il suo medley fanno arrevotare i piani alti del nazional popolare. Namastè, alè!
Cantano Roby Facchinetti e Riccardo Fogli. Musica: Michele Zarrillo.
Poi arrivano gli Stato Sociale e qui in sala stampa applaudono, alcuni avevano già sentito i brani. E niente, 3 voti sono pochi ma loro hanno il mio. #lavecchiaballa
Noemi non pervenuta: come sempre la sua voce alta un po’ ti piglia, anche se ero distratta e non mi ha distolta dalla distrazione. E niente, ottima per le sedute di sfogo e anti stress.
A passo nella storia: arrivano i Decibel. Sono trascorsi trent’anni dagli ’80 (anche qualcuno in più, la mia anagrafe parla) ma i due con Ruggeri sembrano usciti dritti dritti da là. E il titolo è una dedica al Duca Bianco ma, nota malinconica a parte per Bowie, nulla più.
Gli Elii: ma voi ci credete che si sciolgono? Mentre penso di scrivere che amo Cesareo (e a quando lo sfottevano nei concerti…) vedo Faso e non riesco a scegliere. Non so se è colpa della stanchità mia o vostra – la canzone non è ai vostri livelli – ma su, ripensateci.
Caccamo ha dichiarato di essersi chiuso per due mesi o forse più per scrivere il suo album e che a fine registrazioni abbia notato la barba. Pare vivesse in uno stato semibrado. La cosa bella di questa canzone è la barba. La sua.
Red-dalla giacca rossa-Canzian ha una musica che prende, seppur il “tu-tu-ru-tu-tu” sappia di retrò. Come dicono nella chat-malvagity-che-commenta-sul-mio-cell, “chist però c’ha fa”. Si, ce la fa, ma gli ex Pooh ormai cantano solo che “abbiamo fatto questo e siamo contenti di quello che abbiamo ricevuto” ma il passato è passato ed è meglio cantarlo alla loro maniera. Non con queste canzoni.
Barbarossa si fa amare. Il dialetto per dire con semplicità la quotidianità e sviscerarla per bene mi è piaciuto assai. Mi piace. E poi è simpatico e intelligente.
Diodato e Roy Paci: fiati e percussioni danno un bel vestito. Cavolo, mentre scrivo la musica trascina molto. Ma le parole no, non vanno.
Il coraggio di ogni giorno è viscerale, perché la musica, il testo, la mimica di Enzo Avitabile e Peppe Servillo ti pigliano rind a l’oss, gli stentini si arrevotano ma in senso buono. E poi ci sono sonorità che pochi artisti come loro sanno ricostruire.
Dopo ci sono stati altri cantanti, ma un po’ perché ho dovuto fare delle interviste, un po’ perché le ultime canzoni non hanno lasciato il segno, non ho proprio nulla da dire. Anzi no, una cosa ce l'ho: le ritrovate Vibrazioni si distinguono per il chitarrista.

Stop.
Fine prima serata.






domenica 28 gennaio 2018

Mumble rumble su digestione, fatica, gravidanze, lavoro non retribuito

Capita che in un pranzo di fine gennaio quasi febbraio, mentre il “morzo” di pane casereccio inzuppato nella scarpetta del sugo dei ziti spezzati domenicali viene accolto festante dai succhi gastrici e la fetta di anguria nana mi fa l’occhiolino (e, sì, ho ceduto)... e non vi sto a dire i dolci che le mani sante e venerabili di mia madre casalinga hanno preparato... capita che in questo contesto di poesia meritata – perché il settimo giorno anche il Padreterno si è riposato e ha goduto della meraviglia che lo circondava – capita che il morzo rischi di andarti storto e la fresca liquefazione zuccherosa dell’anguria di traverso.

Perché certe cose fanno l’effetto di una digestione attiva e di un peso fastidioso che per mandarlo via ci vorrebbe una cospicua quantità di citrosodina, di biochetasi o di qualsiasi cosa effervescente – all’uso, anche un bel bicchiere di Coca Cola molto gasata – che poi, si sa quale sia l’immediato effetto che produce. Ecco, mentre pensavo a tutto questo e intravvedevo in una emissione di aria gastrica una degna risposta ai miei mumble rumble, ho pensato: ma fa che ci stanno tanta sciemi che scrivono, mo due cose le scrivo pure io e ammèn.



Mentre passeggiavo tranquillamente su quella piazza di paese che è l’homepage di Facebook mi imbatto in un titolo stupefacente de Il Fatto Quotidiano, con una foto di Vittorio Feltri e una sua dichiarazione di senso che fa: Donne, se fate figli è un problema vostro ed è giusto che vi sottopaghino. L’interessante articolo del Fatto, scritto dalla giornalista Elisabetta Ambrosi (una che, leggendone parole e biografia, ha una testa niente male), riporta questa succulenta notizia, una di quelle che sbanca già dal titolo, promettendo argomentazioni al vetriolo. La collega – ah, si, anche io sono giornalista, di quelle pagate poi vedremo come ma sempre giornalista – scrive con una tale precisione e ironia che basterebbe condividere il suo, di articolo, e tutti potremmo dirci soddisfatti. Eppure nel corso degli anni ho capito che dire le cose, dirle con dati oggettivi e una testimonianza autentica, è importante e interessante perché chi legge si riconosca nelle parole e impari a dare aria alla bocca o tastiera alle dita e cacciare la “propria” di verità.


E così, mentre dal mio sud salernitano sento in sottofondo la quiete domenicale e qualche rumore natural-faunistico del vicino mare, penso a questo distinto signore del nord, nativo di Bergamo (chissà se alta o bassa), che magari oggi che è domenica ha coltivato l’orto di cui parla nel suo articolo.

Che poi l’orto è legato al ciclo della vita: che senso avrebbe metterlo a nuovo, nutrirlo, renderlo fertile se non per coltivarlo e raccoglierne i frutti che il ventre della natura – chissà se quella che coltiva Feltri è matrigna o benigna – vorrà offrire all’uomo al termine di un tempo di gestazione di quella terra pur fecondata da un seme.


Il fatto è riduttivamente questo: se le donne vogliono fare figli è giusto che non siano pagate o sottopagate rispetto agli uomini, che intanto lavorano; e, in linea di principio, la disparità di trattamento lavorativo è giusta per tutta una serie di – noiose – conseguenze di quanto sinteticamente scritto il rigo di sopra. Non vi starò a fare la ricerca della causa di questa disparità, potremmo arrivare ad Adamo ed Eva e dire che sì, alla fine, Eva è stata una malamenta perché se si fosse fatta i fatti suoi, il serpente, e la mela, e partorirai con dolore, etc etc.

Ora, capita anche che questo articolo faccia breccia nella mia capoccia e nelle mie riflessioni in un tempo in cui ho approfondito una serie di questioni legate alle tematiche gender a 360 gradi. Insomma, vorrei dire al distinto direttore Feltri che la questione cambio sesso, con pene al posto della vagina e tutto quello che ne consegue, non è proprio una passeggiata. E no, proprio no. Ahi ahi, signor Feltri, lei mi cade sull’uccello.

Iniziamo dall’inizio così iniziamo per bene.

Caro direttore Feltri, sono stata per 8 anni redattrice: prima di continuare, devo necessariamente aprire una “parente”. Le parlo di 8 anni perché ufficialmente non posso parlare di quegli anni in cui, da giovanissima, per fare la gavetta che lei dovrebbe conoscere molto bene, accettavo di scrivere senza essere pagata ma offrire inconsapevolmente il compenso a me dovuto – e firmato – a quanti da scranni posti più in alto di me decidevano cosa fare dei soldi destinati a me. Si sa, la saggezza dei padri.

Dicevo, sono stata redattrice in un lasso di tempo che comprende circa due cicli scolastici, scelga lei se preferisce le elementari e le medie, le medie e le superiori, un ciclo di laurea in medicina con una serie di specializzazioni. “Facci” lei. Un arco di tempo in cui, naturalmente, ufficialmente facevo la redattrice ma dire che facevo l’opera omnia della comunicazione forse – per chi conosce i rivoli immensi che portano acqua a un fiume o i diversi modi in cui si compie e declina la comunicazione – be’, forse renderebbe più chiaro far comprendere la portata del mio dire. 8 anni trascorsi a Roma a fare la prestigiatrice, perché guadagnare quanto guadagnavo io, pagando il dovuto per la sussistenza mensile, e arrivare con dignità a fine mese senza chiedere “l’aiuto da casa”, è una cosa che – mi creda – sa di mago Silvan e David Copperfield (il mago o il bambino, “facci” sempre lei) messi insieme.

Naturalmente, attorno a me non era un gineceo ma un ambiente misto, e anche se non ci si diceva apertamente la quantità della pecunia che – a un certo punto del mese – veniva depositato sui rintracciabilissimi conti correnti, sapevamo che c’era disparità di cifre tra uomini e donne. E, sia chiaro, non parlo tanto per la me dei primi anni, ma soprattutto per quelle generose donne che mi circondavano, che lavoravano instancabili e che si donavano senza lamentarsi.

Devo aprire una parentesi sul “donarsi”. Lei parla di straordinari e di una serie di “plus” che di solito vengono accreditati su uno stipendio base. Gentile direttore Feltri, le cose non stanno così: molti italiani oltre ad essere spesso banderuole a vento, sognatori, un po’ coglioni, partitari e pastasciuttari (sia chiaro, lo dico a metà tra l’amaro e il romantico perché io, nonostante tutto, amo il mio Paese), gli straordinari li conoscono poco. Io, ad esempio, pur avendo lavorato fino alle tre di notte, non ho mai conosciuto l’equivalente monetario di un concetto – quello di straordinario – che pur praticavo in termini di ore di lavoro.

Ora capita che gli anni passino, e i carichi e le responsabilità di lavoro aumentino, eppure lo stipendio resti uguale. Come ben sa, abbiamo una serie di primati in Italia in termini di tassazioni et varia et similia, motivo per cui può facilmente comprendere l’inflazione che uno stipendio basso accumuli nel tempo e, con esso, la qualità della vita che si può condurre. Sa, nonostante questo ce la si fa, ma solo grazie alla dignità. In questi anni mi sono trovata anche a introdurmi anagraficamente – e lo sono ancora – in quella fase di vita in cui attorno a te le coetanee primipare e oltre si moltiplichino, e intanto la tua vita va avanti. Poi capita, come a me è capitato, che questa possibilità su cui lei ha ampiamente argomentato, sparisca immediatamente e, niente, non è possibile poter passare dalla parte della barricata di chi fa figli biologici, va in maternità e deve leggere queste sue parole e provare nausea da gravidanza e da lettura. Lavorativamente parlando, quindi, pur non facendo pipì in piedi o mostrando lunghezze nelle docce delle palestre – al più, un po’ di pancetta e cellulite – sono paragonabile a un uomo nella possibilità di restare sul posto di lavoro. E, creda, sfido qualsiasi uomo a mantenere ritmi, stress, ansie altrui, qualità, quantità, rotture di coglioni, uteri maschili retroversi, che ho dovuto reggere io e portare a casa il lavoro che ho fatto. Nonostante tutto, pur non avendo con me l’utero del contendere, non sono stata degnamente gratificata remunerativamente e non solo. E dire che non sono neanche femminista.

Sa qual è il fatto, egregio direttore Feltri, il problema è che certe parole vengano da menti intelligenti come la sua – sede di opinioni non condivisibili, ma pur sempre intelligente –, aprendo il varco a pensieri e convinzioni altrui che fanno male a tanti, troppi. E non solo alle donne che portano avanti gravidanze, che cercano di far quadrare i conti, che magari portano a casa l’unico stipendio perché il marito è stato esodato o non ha un lavoro fisso o tanti altri casi, “facci” sempre lei –. Il problema è che il suo pensiero di uomo intelligente, capace di intelligere tra le righe, e di uomo di cultura permette, a tante persone di dire che “dovresti ringraziarci perché in tempo di crisi ti paghiamo addirittura lo stipendio e la gente fuori bussa e non sai che ti sostituiamo subito etc etc”.

Egregio direttore, ho una sorella sposata che vive Oltralpe e che, durante la gravidanza, ha conosciuto il welfare state francese verso le famiglie che si apprestano ad accogliere una nuova vita. Lo stesso welfare che, mentre io lottavo contro una serie di vicissitudini di salute e contro uno stato che, ancora oggi, non ha riconosciuto i miei diritti, quello stesso welfare la sosteneva perché in sé portava il segno di una vita nuova che andava accolta e, mia sorella, non mortificata come produttrice seriale di giovani forze destinate a pagare con il proprio giovane i contributi di canuti ex lavoratori che – giustamente – vogliono riscuotere la propria pensione.

Egregio direttore, non ho figli da offrire la bene comune della previdenza sociale ma mi auguro che, nonostante le sue parole, le donne che vorranno continuino a fare figli.


Che poi, si sa, è un po’ come il pallone e la pastasciutta la domenica: noi italiani ci acco
ntentiamo di poche cose. Purtroppo. Ed è su questo gioco perenne di carota e bastone che chi ha la voce più alta continua a farci credere che il pallone e la pastasciutta la domenica siano sufficienti.

La saluto, mentre la stanza è colorata da un sole giallo intenso e arancione, in questo autentico luogo comune di piccola città del sud senza lavoro ma ricca di dignità. 




giovedì 11 gennaio 2018

Itaca. Una nuova partenza, un nuovo viaggio

La porta della mia camera di Roma :)
Salerno, 11 gennaio 2018
Avevo scritto alcune parole poco più di un mese fa, la notte prima di tornare a Salerno, a poche ore dal mio trasloco di rientro dopo 8 anni di vita fuori casa. La mia stanza di Roma, che nel corso degli anni si era arricchita e colorata di segni e passaggi di vita, era spoglia e piena di echi di parole, di risate, di silenzi, di cose sussurrate o dette a gran voce.
Avevo deciso di scrivere per fermare su un foglio, seppur elettronico, quello che con grande immediatezza e fluidità di pensiero si stava dipanando dentro di me. Pensavo di avere scritto pensieri confusi, che la stanchezza e tutto il resto avessero calato una nube di imperscrutabilità, e invece no. Ho impiegato più di un’ora per ritrovare quel file e proprio mentre credevo di non poter rileggere quelle parole, sono ricomparse. E devo dire che, nonostante il limbo, tutto era molto più chiaro di quanto pensassi.

Roma, 29 novembre 2017
h. 00.30

Stanotte si va a braccio. Non che di solito ci sia un canovaccio nei miei pensieri: arrivano, a volte con un garbato “toc toc”, a volte in modo irruento, e si fanno strada nella mente, tra i tasti del computer, in una corsa digitale per stare dietro al fiume in piena di cose da provare a fermare attraverso le parole.
8 anni fa avevo deciso di partire: la laurea era un fatto recente, la prospettiva del primo lavoro post università era quasi una certezza e così, mentre iniziava ufficialmente la crisi economica, io entravo nel mondo del lavoro. 8 anni sono molti, ci stanno dentro due anni bisestili – se il conto è fortunato anche 3 – un ciclo di scuola materna ed elementare, o anche elementare e medie; le superiori e la laurea triennale in tempo record. In 8 anni stanno dentro incontri, frequentazioni, conoscenze, decisioni, innamoramenti, delusioni, grandi amori. In 8 anni ci sta tutto e il contrario di tutto – perché di certezze ce ne sono poche e “del diman”, del resto, si sa.

Ricordo come se fosse ieri un pomeriggio di the, cioccolata calda e biscotti tra amiche, una piacevole e confortevole parentesi di calore umano e affetto autentico prima di andare via. Ero forse Ulisse? Non lo so. Tra gli affetti che mi sono stati sempre vicini potrei riscontrare diverse forme di Penelope pronte ad attendere il mio ritorno. Di certo mi sono sempre sentita Jo, l’irrequieta protagonista di quelle Piccole donne che hanno segnato la mia crescita. Suo e mio è il sentire la necessità di buttare fuori quel mondo che pulsa dentro, di respirare, di andare oltre, di non sostare, di non stare nello stesso posto per troppo tempo, alla ricerca di qualcosa che ha bisogno di tempo per farsi conoscere, per farsi trovare.

Sono partita consapevole che avrei avuto di fronte a me mari da attraversare e città da conoscere, peripezie da vivere e difficoltà da affrontare. Ho camminato verso la mia Itaca andando a tentoni, tastando quanto mi circondava, provando a prendere le misure; fidandomi, a un tratto, del mio senso di orientamento, tra qualche cosa fatta bene e qualche caduta. Non rinnego nulla di questi 8 anni, nemmeno una decisione, anche se ora non vivrei tutto allo stesso modo. Guardo alla me che 8 anni fa ha iniziato un cammino e provo a fermarmi un attimo. C’è bisogno di prendere un grosso respiro perché l’approdo di oggi non è facile. Non è stato semplice decidere di rimettersi in viaggio, di ricominciare daccapo, di ripartire dal via anche se questo non è il gioco dell’oca o un passaggio del Monopoli e tanto meno ci sono alberghi costruiti a Piazza della Vittoria.

Quel pomeriggio, prima di ricevere le mie amiche, preparai per ciascuna di loro un piccolo rotolo di carta d’Amalfi con inscritta una poesia. L’avevo letta un po’ di tempo prima e mi era piaciuta. Lo so che Itaca mi dona il viaggio, la possibilità di cucirmi addosso le esperienze. Una persona saggia stasera mi ha detto: “I cambiamenti non sono mai facili, ma portano una ventata di aria fresca”.

Ogni volta che leggo la poesia di Konstantinos Kavafis sono grata a queste parole, a Itaca, al suo mito: per questa spinta indomita che mi dà la forza di preparare il mio bagaglio e rimettermi in viaggio.

Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
nè nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti - finalmente e con che gioia -
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca -
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare. 

Mano nella mano

All’improvviso una mano afferra la mia nel tentativo di placare il panico e, mentre mi giro, vedo due occhi fermi e rassicuranti, dritti nei...