lunedì 24 settembre 2018

Il foglio bianco



La prima volta che ho affrontato il foglio bianco ero in terza elementare, la maestra ci diede una traccia e noi piccoli alunni eravamo lì, di fronte a queste righe strette, a cercare di mettere insieme le parole per raccontare qualcosa e raccogliere il plauso della maestra. Si cercava di afferrare con la mente qualcosa – i pensieri – e di metterli in sequenza uno dietro l’altro. Certo, per mettere insieme un pensiero occorre pensare e a 8 anni il dubbio che quel qualcosa a cui pensare – e quindi da scrivere – non avesse un suo nesso mi fece vivere per la prima volta l’ansia da foglio bianco, ben noto a chi ha a che fare costantemente con le parole.

Quattro mesi che non scrivo sul blog, e in effetti è un lungo foglio bianco quello che si dipana dinanzi ai miei occhi. Quattro mesi in cui l’inchiostro digitale non ha battuto il nero sul bianco del word, lasciando un buco comunicativo nel mio reale mondo virtuale. Un foglio si può misurare in giorni? Un foglio grande 120 giorni il mio, lungo circa 4 volte il cammino di Santiago, in cui i pensieri si sono rincorsi in silenzio per non fare troppo rumore.

Che il silenzio, poi, a volte è solo apparente perché, mentre fuori non si sente nulla, la meccanica del cuore macina ingranaggi su ingranaggi, scandisce il tempo, i pensieri, le parole, e l’afonia non è mancanza di parole ma volontà di tenerle dentro, macerarle, tenerle sotto spirito come le amarene che mia madre prepara in estate per lasciarle diventare ciò che diventeranno, lasciare che prendano sapore. Un po’ come la vendemmia che faceva mio padre, quando preparava i tini e attendeva che l’uva pigiata diventasse altro, si consumasse in se stessa per diventare qualcosa di nuovo. E ancora lo ricordo l’odore che saliva dalle cantine di legno e mura umide, fin nella casa del paradiso: era il profumo di attesa silenziosa.

Nel silenzio che ha vorticato nella mia mente ho scritto e riscritto molte parole: ho raccontato i piccoli accadimenti che ho osservato camminando per le strade di un Paese nuovo e di una nuova città, ascoltando parole sfuggenti in una lingua che non è la mia e che mi sto allenando a trattenere nella mente, acchiappandone il significato; ho raccontato di case cadute scansate e di crepe che mi hanno toccato; ho scritto di sveglie all’alba e di camminate mattutine, quando ti fermi ad attendere il tram delle 7.08 e i lampioni notturni si spengono; ho scritto di treni, di vagoni che non si incontrano mai e di biciclette che sfrecciano come i motorini a Salerno, mentre ti giri a guardarne una di bicicletta; ho scritto di un lunedì alle 7.00 che urla ancora dentro e di notti di veglia che sembrava non dovessero finire mai. Ho scritto di lontananze che sanno farsi vicine e di fatti veri che sono e resteranno sempre tali e, forse, tra le poche parole che davvero saranno scritte.

Non ho scritto niente di tutto ciò, non c’è un nero che abbia segnato il bianco di un singolo foglio: eppure è tutto segnato, indelebile.

(In sottofondo ci sono le parole delle chat sul telefonino, le mail procrastinate, le cose tristi, i fatti da dirsi perché la distanza pesa e dobbiamo accorciare i chilometri, le chat sceme sul telefonino che ci fanno ridere assai, le parole dette e quelle taciute e le sorprese rivelate che sanno ancora di sorpresa perché le parole, quelle vere, quelle belle, hanno il sapore della meraviglia).

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