domenica 24 settembre 2017

23 settembre

L'attesa della chiamata attraverso l'obiettivo del mio caro Lalluccio
Ricordare i giorni della nostra vita è una cosa comune. Memoriali, ricordi, anniversari, sono costantemente posizionati nella quotidianità, e ogni mezzanotte segna l’inizio di un giorno in cui eravamo, c’eravamo. Oggi è uno di quei giorni. Oggi è il giorno di 8 anni fa, quando a casa c’era un sottofondo rosso laurea che timidamente attendeva di affacciarsi per farsi conoscere da me.
Un giorno atteso non poco, a tratti chimerico, adombrato dai casi che si sono palesati sul mio cammino e dalle deviazioni che hanno arricchito il mio percorso. Un giorno tutto mio, in cui con me arrivavano al desiderato traguardo anche altri – la mia famiglia, gli amici cari – ma “io” un passo avanti agli altri. E così è stato.
Quel giorno ha chiuso un ciclo e ne ha aperto un altro che oggi, a distanza di 8 anni, si sta per chiudere. Cosa sono stati questi 8 anni? Sono stati una vita!
Sono stati nuove strade, percorsi, lavoro; traslochi, piumoni nei pullman, viaggi; scoperte e consapevolezze; responsabilità, crescita e formazione; strutturazione e progetti, amore, un grande amore; ma anche demolizione e decostruzione, paura, dolore, cambiamenti e nuove speranze; speranze timide, speranza.
Sono stati una vita che si rinnova ed è nuova davvero perché ha l’odore e i tratti di un bambino che prima non era e che ora “è” e “c’è” quando tutto grida novità, quando tutto dice “sradica e risana per ricostruire”.
Quel 23 settembre, lo ricordo bene, doveva essere un giorno di luglio che sa di Argentina e che le carte e gli uffici rimandarono a settembre, quando l’estate è appena finita ma il suo profumo è ancora nell’aria; era il primo giorno di san Pio, che da un anno era nei miei paraggi senza che me ne accorgessi, restandomi accanto mentre il tempo e lo spazio mutavano e la mia vita con essi.
Quel 23 settembre è stato il giorno del “mi vesto come Carrie a modo mio”, perché agli appuntamenti della vita bisogna arrivare con un personale e soggettivo tocco di classe.
Quel 23 settembre è stato il giorno delle dediche e dei ricordi, racchiusi in una sequenza di parole e pagine che critallizzavano un percorso di studi e un tratto di vita.
Quel 23 settembre ha il volto dei tantissimi che erano con me all’Università (e a fare festa spensieratamente), dei tantissimi che quasi 5 anni dopo sarebbero stati con me a sostenermi nell’affrontare altri esami della mia vita, sempre gioiosi, sempre lì, vicini e onestamente belli.
Sono passati 8 anni e spero non ne passino molti altri per portare a termine un altro percorso di studi che intanto si è riaffacciato da queste parti. E con lo studio altre idee, progetti, sogni.

mercoledì 20 settembre 2017

“La pazza gioia” Film #2


“Abbiamo anche una macchina… ci diamo alla pazza gioia”. Ho sorriso quando ho ascoltato questa battuta, pronunciata da Beatrice a Donatella nel film La pazza gioia di Paolo Virzì. Un po’ Thelma e Louise, un po’ ragazzine problematiche de Il grande cocomero, queste due «pazze, siamo pazze… secondo alcune perizie sembrerebbe di sì» mi hanno fatto compagnia nella seconda parte di una serata in cui dovevo smaltire la brutta sconfitta della Lazio contro il Napoli (Ciruzzo, bell i mamm, stasera niente). Poca cosa, a dire il vero, la sconfitta da smaltire. Il film era già nell’aria: avrei voluto vederlo quando è uscito ma, come capita spesso, non sempre le cose accadono quando vorremmo. Io poi sono così, una cosa la devo sentire nel profondo o niente. 
Non ho i mezzi, gli strumenti, per entrare nella vita di Beatrice (interpretata da Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella (Micaela Ramazzotti), è uno squarcio troppo profondo nel quale non so inoltrarmi. Non posso discettare sulla realtà della questione psichiatrica e di tutto il suo corollario. Ma posso provare, piano piano e in punta di piedi, a dire il sentire che questo film mi ha lasciato, perché da questo film non si esce indenni o uguali a come ci si è accostati.
La pazza gioia è un concetto complesso, l’accostamento di due mondi che parlano di sentimenti estremi, perché posti alle estremità delle emozioni. Quando ero piccola mi capitava di sentir dire “ti voglio un bene pazzo”, e pazzo diventava la misura dell’estremo, del senza limite o misura, il superlativo per eccellenza per dire “mi fai scoppiare il cuore dal bene che ti voglio” perché la pazzia il cuore lo mette a dura prova. La gioia, poi, inebria, è quella cosa che ti salgono gli angoli della bocca, ti si riempiono gli occhi di lacrime ma non è dolore, è vita che ti scorre dentro alla massima potenza, è sangue che fluisce sempre più forte e vivifica ogni pezzetto di fibra.
La pazza gioia è la scena dell’auto rubata da Beatrice e Donatella, è la consapevolezza di una libertà di cui non si conosce l’esistenza, della corsa fuori da una clinica di recupero “leggera”, dove l’umanità non è mortificata ma depauperata perché vive una vita fatta di sopravvivenza.

- Siamo due pazze, siamo due pazze
- Tecnicamente si… ma è fantastico: abbiamo anche una macchina… ci diamo alla pazza gioia! Perché non andiamo al mare… andiamo a fare un giro in barca… ci prendiamo il vento in faccia… che giorno è oggi? Che numero, che mese, siamo già in estate?
- Bo.

La pazza gioia di Beatrice e Donatella è anche lo spettro del male oscuro, di quella depressione che cammina silente verso l’espropriazione del sé, verso l’annichilimento della voglia di vivere.

- Birrette e, naturalmente, anche un bel valium fregato a mia madre
- …dice sto troppo male per tenere il bimbo, inidoneità genitoriale, e me lo levano subito… dice te aspetta, dobbiamo decidere; io aspetto, piango tutto il giorno ma aspetto… piangi troppo, dice; depressione maggiore, dice; datemelo, no, non piango più; no, te sempre hai pianto, piangevi a scuola
- Anche io
- Sanno tutto, sanno che piangevo per i compiti, piangevo per il babbo, piangevo in ascensore
- Anche io
- Quando mamma mi sgridava che piangevo
- Anche io
- C’ho questa depressione maggiore, va bene, e allora curatemi, no? Sono nata triste, curatemi
- Anche io sono nata triste

Io la vedo la tristezza, la riconosco la malinconia, che arrivano e si rintanano negli occhi delle persone: cade un velo che fa rannicchiare nel corpo e nella mente in posizione fetale, chiusi in un guscio che va all’indietro nella corsa del tempo, a cacciare la vita di fuori per tornare in quella vita di dentro dove tutto era buio, calore, suoni attutiti, poco rumore, pace. Ma la vita è fuori, è negli occhi del bambino tolto, è oltre il dolore che attanaglia, è la soluzione al buco nero sul cui limite si cammina rovinosamente. È vita anche il dialogo tra Donatella e il piccolo Elia, occhi negli occhi, con il respiro trattenuto sott’acqua, nel non detto che è tra le righe delle loro parole.

- Hai presente quando ti prude la schiena?
- Si
- Quella sono io che ti fo il solletico
- Mi prude la sera
- Vuol dire che la sera ti penso di più
- …
- E adesso dove vai?
- Non lo so, in un posto per stare meglio, così poi un giorno ci si rincontra, no?

A fare da sottofondo a questo film meravigliosamente delicato, una canzone di Gino Paoli, uno degli uomini che con maggiore forza canta e ha saputo cantare l’intrico dei sentimenti umani.

Senza fine, tu trascini la nostra vita,
senza un attimo di respiro per sognare,
per potere ricordare ciò che abbiamo già vissuto
Senza fine, tu sei un attimo senza fine,
non hai ieri, non hai domani
tutto è ormai nelle tue mani, mani grandi,
mani senza fine
Non m'importa della luna,
non m'importa delle stelle.
Tu per me sei luna e stelle,
tu per me sei sole e cielo,
tu per me sei tutto quanto,
tutto quanto io voglio avere
Senza fine, la la la la la la la la la 

Poi il film finisce, e il finale è meno drammatico di quello che si possa pensare. Sono convinta che c’è liberazione per Beatrice e Donatella, l’ho letto nel dialogo muto tra Beatrice – che guarda il ritorno di Donatella seduta dietro i vetri della finestra – e Donatella, in quel piccolo sorriso che si arrampica verso la serenità. L’ho visto tra le righe delle loro parole.

- Meno male che ci sei te
- Io?
- Te, te

lunedì 18 settembre 2017

"Elsa e Fred" Film #1

Con un po' di immaginazione, questa sono io tra qualche anno (tratto da Up e dalla cover del mio cellulare)
Cercando di capire chi mi avrebbe fatto compagnia in questa serata di lavoro al pc, ho fatto un giro tra i palinsesti televisivi e mi sono imbattuta in un film che ha deciso per me. “Elsa e Fred” è un titolo che non ha bisogno di grandi spiegazioni, l’omonimia ha orgogliosamente avuto la meglio, e quando poi ho letto il nome di Shirley MacLaine ho pensato “è fatta”. Per grandi linee avevo capito che Elsa-Shirley fosse una peperina che avrebbe scombussolato la vita di un neo vicino di casa portando una ventata di simpatia, e mi bastava.

La Elsa del film è una donna anagraficamente anziana, decisamente anziana; lo stesso vale per Fred. La loro conoscenza avviene in quella fase della vita in cui, in maniera riduttiva, si tende a pensare che tutto sia finito, che sia lì per finire, che le emozioni siano solo una derivata da vite altrui, di rimpallo, in rimbalzo, di seconda mano, come se la genesi delle emozioni avesse un’età oltre la quale la radice rinsecchisca. E invece no. Questi due qua, strampalata donna separata lei, vedovo fresco fresco di acquisizione lui, mi hanno regalato una serata emozionante.

La loro complicità, costruita passo dopo passo; la politica dei piccoli passi di Elsa che diventano passi veloci, che fa rialzare Fred da letti e divani su cui la sua vita si era parcheggiata per poi tornare a camminare, ad andare incontro alle piccole grandi cose di ogni giorno; la fantasia di Elsa, una dimensione del sogno che mi fa tremare i polsi per quanto è fresca, coinvolgente, pazzamente ilare e contagiosa. La sua capacità di dire le cose, il coraggio di vivere ancora e di innamorarsi con forza nonostante il poco tempo reso ancora più breve dai casi della vita. E poi c’è Fred, bloccato nel dolore per la morte di una donna che non ha amato; reso ipocondriaco dall’abulia verso la vita; una candela che si sta affievolendo su cui arriva a soffiare il vento di un nuovo amore, imprevisto e meraviglioso.

C’è una scena in cui Elsa e Fred, come due adolescenti alla prima uscita, mettono in chiaro cosa sta loro accadendo:

Fred: Cosa sono io per te, Elsa? Cosa siamo noi? Da quando ti ho conosciuto la mia vita è cambiata, è “strano”. È una cosa buona o cattiva?
Elsa: È “strano” …Fred, non voglio ferirti, e ti ho detto quanto mi importa di te, sto solo chiedendo se ci sia di più. Ho delle sensazioni così forti…
Fred: Sembri un'adolescente.
Elsa: Sono un'adolescente!
Fred: Si, lo sei. Una ragazza nel corpo di una donna. Una donna molto bella.
Elsa: Quindi è una buona “cosa strana”.
Fred: Si.
Elsa: Pensi che abbiamo un futuro insieme? Sei timido? Amo questo ragazzo di 80 anni seduto di fronte a me, che arrossisce. Come faccio a non innamorarmi di te?

La pietrificazione che questa scena mi ha procurato è stata lentamente ammorbidita dal resto del film, che se ve lo vedete fate una cosa buona e giusta. In mezzo troverete anche Roma, città eterna che sa essere un set romantico come poche città al mondo, e in cui questa storia da sogno trova il più bell’epilogo possibile. Ora, e non vi spoilero il finale, va detto che non c’è melassa fino alla fine, perché la vita è agrodolce e a tratti sa essere amara. E aggiungo anche che non so trovare una chiusa a questo post degna del film visto. La verità è che sto aspettando che Fred – quando arriverà – si decida ad alzarsi dal divano e a partire con me.

giovedì 14 settembre 2017

Ragazzina

Mia nonna Vincenza si divertiva a scattare foto a noi nipotini. Qui sono a casa dei nonni materni, 
un ricordo che rivive ogni volta che da casa mia mi affaccio e guardo "la finestra di fronte" 

Mi è capitata una cosa molto bella, pochi giorni fa. Di una bellezza che mi ha colpita per la sua franca semplicità, non dovuta, non attesa. Gli occhi profondi e i capelli bianchi di un uomo stanco e ricurvo sul suo dolore mi hanno guardato, le mani protese verso le mie, mentre il cuore consegnava alle labbra poche parole: “Sei brava, ragazzina”.

Qualche mese fa ho comprato il nuovo album dei Baustelle, “L’amore e la violenza”, una raccolta di canzoni che ogni volta mi sembra che Bianconi e compagnia non possano fare di meglio e, invece, ogni volta mi sbaglio. Tra le canzoni ce n’è una che mi sconquassa tutta perché è delicata e semplice, il canto d’amore di un padre timido eppur custode di parole e sentire come pochi. La canzone che il padre dedica alla sua “Ragazzina” – è questo il titolo – “Gambe secche che passeggi tra i coralli”, è lo sguardo di un padre che guarda e prova a tenerle la mano mentre attorno è tutta un’inquietudine, in sospensione tra il vivere e il morire, tra Biancaneve e la strega, in un mondo che “sbuccia le ginocchia e fa sanguinare”.
“Ma tu invece lo continui ad abbracciare (il mondo) e non lo lasci più”, perché i bambini sono così, vanno incontro alle cose e le prendono con sé. 

“Ragazzina” è il vezzeggiativo con cui Christopher chiama sua figlia Rory, nel (meraviglioso) telefilm “Una mamma per amica”, e lo fa nelle puntate andate in onda un annetto fa, con una Rory 32enne che si ritrova a fare i conti con quella fase della sua vita: perché si cresce e ci sono i sogni da coltivare, il mondo da abbracciare, streghe da conoscere, mele da evitare, orchi da allontanare e principi (?) da amare, ma arriva quel momento lì e non puoi fare altro che rallentare fino a fermare il tempo. La ragazzina Rory aveva dissodato il campo dell'ignoranza, irrigandolo e fortificandolo di esperienze e conoscenza, zaino in spalla e via verso il mondo. Poi la vita non è quasi mai quella che ti eri immaginata (eh, lo so che è una frase fatta ma se si dice “la saggezza degli antichi” ci sarà pure un motivo) e quindi ti ritrovi a riavvolgere il nastro per riascoltarlo.

E allora rivedo la ragazzina che ero, con le orecchie un poco a sventola che il tempo ha domato, con le codine e i ricci che – invece – si sono fatti sempre più indomiti; le gambe secche che si sono arrotondate e sono cresciute ma poco, gli occhi verdi sempre vigili e resi miopi dalla lettura; la curiosità del primo libro rimasta intatta ogni volta che una nuova porzione di mondo si fa spazio tra le mani e gli scaffali della mia libreria; i sogni ricorrenti e quelli infranti, i pensieri stupendi e quelli no; i vuoti e i pieni, il tempo di fermarsi. 

Rivedo la ragazzina di ieri e trovo la ragazzina di oggi, con le rughe di espressione, qualche cicatrice in più e sbucciature di ginocchia in meno, ma una rinnovata voglia di “abbracciare il mondo”. 
Torno allo sguardo carico di anni che mi ha chiamato “ragazzina” e allo stupore che si è disegnato sul mio viso. Solo ora mi accorgo che quelle parole erano un abbraccio per la donna di oggi.

lunedì 11 settembre 2017

Torrione. State of mind state of heart

La focaccia di Annamaria
“No, non puoi capire”.
“Io mi sono allontanata da casa di 120 km, la capisco la distanza!”
“No, scusa, ma davvero non puoi capire. Quando faccio le analisi, nel sangue cercano le tracce di leucociti, tas, marcatori, emocromo completo, Torrione. Perché Torrione lo tieni nel sangue”.

Questa conversazione* ha avuto luogo davvero: iniziamo col dire questo, così non lasciamo adito a supposizioni! Se siete nati e cresciuti in una città di provincia, e il senso di appartenenza al vostro rione è cresciuto proporzionalmente ai vostri anni, potete comprendere fino in fondo questa conversazione. Capita anche nelle metropoli, ma lì i quartieri somigliano più a delle città in miniatura e il senso del tutto si disperde come il riverbero delle onde concentriche al lancio di un sasso.

Torrione è il rione che raccorda il centro di Salerno, la mia città, con l’inizio delle zone periferiche orientali, un quartiere particolarmente esteso e che conta anche una zona collinare – Torrione Alto – che svetta a metà e che, naturalmente, non sarà mai bella come la vera “Torrione”, che non si chiama Torrione bassa perché non ha bisogno di essere identificata in sé. Torrione, punto.

Questo amore rionale affonda le sue radici nei ricordi di sempre, in quelli che diventano un prisma colorato attraverso il quale passa la luce che accende la memoria.
I ricordi dei primi anni di scuola, tra asilo e scuola elementare, quando il viale alberato di casa mia pullulava di zaini colorati e grembiuli, trecce e codine.
I ricordi dei Natali addobbati, quando le luci erano quelle dei negozi che si rivestivano di oro e argento, mentre impaurita guardavo attorno con circospezione temendo di scorgere Babbo Natale (una paura che ho superato in età avanzata…).
I ricordi delle primavere in fiore, con il naso all’insù per provare a scorgere la prima rondine; o dei mesi di maggio degli anni delle scuole medie, che odoravano di caffè tostato e rugiada, in quel tempo sospeso verso l’estate.
I ricordi dei mesi di luglio, quando una carovana di ragazzini camminava in fila indiana verso la spiaggia, capitanati da un padre generoso e premuroso che faceva incetta di pizzette e focacce prima di consegnarci alla sabbia. Erano mesi “unti” di cibo e creme protettive, e il profumo di crema al cocco ha impregnato da quel dì i miei ricordi marini, perché l’estate non è tale se non sento nell’aria la crema al cocco.

Quando sono andata a vivere a Roma, circa 8 anni fa, ho guardato con curiosità ai quartieri romani, ai municipi, provando a intercettare qualcosa di originario e natìo in quelle strade larghe. Ho trovato qualcosa di simile nella mia amata Tuscolana, che con Torrione condivide la “T” iniziale e il suo essere varia e pullulante di gente, con la mia edicola di riferimento (i giornalai sono per me imprescindibili!), varie parrocchie, il supermercato, le vetrine, il vociare per strada, i sudisti salernitani presenti in quantità massiccia.

Quando torno a casa, a Salerno, e dalla stazione la macchina svolta su Piazza della Concordia, l’odore della salsedine mi invade e inizio a sentirmi a casa. Ma quando arrivo ai campetti di tennis, sotto il Forte la Carnale, e scorgo la scalinata della mia parrocchia, i giochi nel parco dell’infanzia, i muretti con la balaustra che ha misurato la crescita (poca, per me) in altezza della mia generazione, in quel momento un sorriso si distende sul mio viso, da una parte all’altra delle lentiggini, e sono felice.


*La conversazione ha avuto luogo da Annamaria, la storica panettiera che ha sfamato diverse generazioni di bimbi della scuola elementare “Matteo Mari”, come documenta la focaccia nella foto di questo post. Ai miei tempi, la focaccia ripiena di cracker sbriciolati era il top.

Mano nella mano

All’improvviso una mano afferra la mia nel tentativo di placare il panico e, mentre mi giro, vedo due occhi fermi e rassicuranti, dritti nei...