martedì 28 settembre 2021

Mano nella mano

All’improvviso una mano afferra la mia nel tentativo di placare il panico e, mentre mi giro, vedo due occhi fermi e rassicuranti, dritti nei miei che fermi, invece, non riuscivano proprio a stare.

È da domenica che penso a ripenso al volo che da Roma mi ha riportato a Basilea, sulla strada di “casa” verso Strasburgo. Da due anni mi capita di vivere i viaggi in aereo con un po’ di apprensione, ma poi normalmente tutto si scioglie come neve al sole qualche minuto dopo il decollo. Non è stato così il 26 settembre, a causa di una perturbazione inattesa in volo durata quaranta interminabili minuti. Viaggiavo sola, insieme a un centinaio di persone ma pur sempre sola con i miei pensieri e le mie ansie da volo. Che poi, in auto o dal sedile di un aereo, i piedi sono sempre lì puntati a spingere pedali invisibili.

Mi guardavo attorno: una hostess aveva captato la mia preoccupazione e, passando, si era rivolta a me con parole gentili, posando una mano delicata e forte sulla mia spalla. La sua mano. Ho puntato poi tutto sulla routine, attendendo il carrello degli snack consapevole che quello sarebbe stato il segno di un equilibrio certo. Ma quando ho provato a girarmi alla ricerca del carrello, ho visto che anche gli assistenti di volo erano seduti cercando con le mani di mantenersi saldamente ai loro sedili.

È in questo momento – mentre la mente faceva andata e ritorno tra mille e zero pensieri, quando cercavo attorno a me una mano da afferrare perché il bracciolo era ormai poca cosa – che una mano afferra la mia e la stringe.

Era da prima del 26 febbraio 2020 che una mano non mi afferrava senza che io pensassi al gel igienizzante. Quel giorno, che ricordo molto bene, ho comprato le prime due (e rare all’epoca) mascherine e il gel che mi avrebbero fatto compagnia nelle successive tre settimane di isolamento. Da quel momento il gel è diventato un punto fermo, un oggetto onnipresente, un gesto automatico. Quando poi, domenica stessa, ho ripensato a quel gesto mi sono resa conto che non avevo in alcun modo pensato di dover igienizzare le mani, un gesto che se prima del covid già era parte di me nei tragitti in tram e treno di tutti i giorni, da un anno e mezzo a questa parte è una vera necessità per arginare le paure da coronavirus. Quello che riflettendo mi ha colpito, in seconda battuta, è stato realizzare concretamente la distanza che si è creata in oltre diciotto mesi, uno iato umano e sociale che spesso è difficile colmare. A volte ma non domenica, quando la paura di qualcosa di totalmente ingestibile ha riportato alla luce la vera natura, tutta quella umanità messa sottovuoto che è tornata a respirare seppur da sotto la mascherina.

Quella mano che mi ha afferrato ha un nome, Silvana, e una vita di progetti e sogni piena dei suoi meravigliosi ventiquattro anni. La sua mano, che pochi istanti prima era tra le mani del suo fidanzato Nunzio, non ha esitato a venire verso di me, non ci sono state barriere igienizzanti e timori di contaminazione a bloccarla: una mano nella mano di Nunzio e l’altra ad afferrare la mia, una catena umana di sostegno. E non che il panico non circolasse attorno: nel dare serenità a me ci siamo trovati, poi, a darcela reciprocamente.

Silvana e Nunzio hanno due nomi tradizionali, nel sentirli ho pensato che sono nomi che sanno di buono, di semplicità e operosità, come i frammenti di vita che mi hanno condiviso mentre esorcizzavamo il tempo e la paura. Perché quelle mani che domenica mi hanno salvata sono mani che studiano e faticano quotidianamente per costruire un futuro dignitoso.

Quando siamo scesi dall’aereo io e Silvana avremmo voluto inginocchiarci e baciare il suolo su cui abbiamo poggiato i piedi, ma in territorio svizzero questo gesto avrebbe potuto scatenare un TSO. Abbiamo chiacchierato lungamente, perché anche se non ci conoscevamo avevamo condiviso un gesto forte. Poco prima di andare, mascherina sempre in volto ci siamo salutati in modo goffo, un abbraccio ascellare di cui sono diventata esperta. E mentre le mani si allontanavano ho affidato tutta la mia gratitudine agli occhi, gli unici in grado di esprimersi a distanza.

mercoledì 8 settembre 2021

“Il tempo non torna più"

Stavo parlando con un’amica, in quel modo strano del parlare che sono gli audiomessaggi di whastapp, e le dicevo che il tempo non torna più, e mentre lo dicevo ho iniziato a sentire la musica salire e la voce di Fiorella Mannoia farsi spazio. Quando ero bambina ed era domenica e restavo a casa ricordo mia madre girare per casa a fare le pulizie cantando. La radiolona accesa, la manopola della radio su cui c’era scritto “tuner” per cambiare le stazioni radiofoniche alla ricerca di una canzone conosciuta e amata. Il giro della manopola era a tratti compulsivo, lo era quando a girare ero io, ma ricordo che anche dall’altra stanza mamma riconosceva la voce di Fiorella e allora non si poteva andare oltre. Mi piaceva quella voce, alcune sue canzoni ho iniziato a cantarle quando andavo alle elementari, anche se forse non le capivo fino in fondo.

Il 26 Luglio 2002 avevo vent’anni ed ero per la prima volta allo Stadio San Paolo di Napoli, nella mitica Curva B, per uno dei più bei concerti a cui abbia assistito: Francesco De Gregori, Pino Daniele, Ron e Fiorella Mannoia quell’estate erano in tour attraverso l’Italia. Per la prima volta ascoltavo dal vivo la voce che aveva accompagnato le mie domeniche casalinghe di bambina. Quella serata la ricordo da prima che iniziasse, sento anche ora l’adrenalina mia e di chi era con me “nel prima”, la malinconica emozione della fine del concerto. Quella sera ho ascoltato per la prima volta “Joe Temerario” di Ron. Quando ci ripenso mi rendo conto che di quella serata resta come un’eco che di tanto in tanto riecheggia attraverso la musica, in quella memoria delle emozioni che sta lì silenziosa e raggomitolata su se stessa per riemergere e dipanarsi all’improvviso.

“Il tempo non torna più” canta Fiorella Mannoia attraverso le parole scritte da Piero Fabrizi ed Enrico Ruggeri, e mentre ci pensavo ho aperto il computer e sono andata a cercare in quel mare magnum di archivio della malinconia che sa (anche) essere “l’internet” (cit. Core). Ho trovato il testo e prima me lo sono cantato con il quartetto, degna di un concerto live dalla Curva di casa mia a Straburgo e poi sono andata a rileggerlo con attenzione. Allora ho ripensato alla chiacchierata con la mia amica su whatsapp, in quel luogo non luogo che è una App, in cui lo spazio non c’è e il tempo si rincorre, e mi sono accorta che quelle parole scritte nel 1988 erano cantate dalla me di sei anni per trovare un senso pieno soltanto nella me “grande”, nella persona adulta che il tempo mi ha fatto diventare. Forse una canzone è un po’ una macchina del tempo.

 

Spesso le nostre giornate si complicano

Mentre le perplessità rimangono qui

E ci si sposta lontano

In un orizzonte più strano

E i conti già fatti non tornano mai

No, il tempo non torna più

E ieri non eri tu, oggi chi sei?

Cos'è che cambia la vita in noi

E quello che adesso hai

Domani non lo vorrai

Spesso le nostre coscienze ci mormorano

Frasi che poi nascondiamo dentro di noi

E ci sentiamo colpiti per come veniamo cambiati

Parole nascoste non escono mai

No, il tempo non torna più

E forse rimani tu, con quello che hai

Cos'è che grida nascosto in noi

Stanotte non dormirai

Ma non capirai

No, il tempo non torna più

E ieri non eri tu, oggi chi sei?

Credi il tempo non torna più

No, il tempo non torna più

Vedi, il tempo non torna più

No, il tempo non torna più

venerdì 16 luglio 2021

Campo degli angeli

Al Cimitero comunale di Salerno c’è un settore che si chiama “Campo degli angeli”, ed è da lì che comincio ogni volta il mio cammino tra le storie che vi sono custodite. Penso di avere avuto poco più di dieci anni la prima volta che mi ci sono recata, ero con mia nonna Vincenza e andavo a trovare mio nonno materno, suo marito, e una figlia della cui esistenza solo in quel momento, davanti alla foto incastonata nel marmo, venivo a conoscenza fino in fondo. Quella bambina addormentatasi all’età di undici mesi per non svegliarsi più è la spina nella carne che si è infilata sottopelle, restando lì a infiammare con ondate di dolore, per ricordarmi della sua esistenza. Più passava il tempo, più crescevo, più vedevo in quella foto una sorella minore, una zia rimasta bambina, una figlia mancata troppo presto. Mentre il tempo camminava lasciando segni di nuove consapevolezze, in quella foto di bimba si condensava il dolore più grande della vita, e io che intanto aggiungevo tempo su tempo al computo dei miei anni, cercavo di capire come si potesse sopravvivere a una figlia.

In quel Campo degli angeli ci sono tanti bambini, e dopo molti anni ancora mi si smorza il fiato mentre passo tra lapidi che hanno più dei miei anni, issate quando io non ero neanche un pensiero pensato. Pezzi di pietra che sono stati eretti mentre c’era il boom economico, il Sessantotto, gli anni di piombo. Alcuni di quei visi negli anni mi sono diventati familiari: erano già lì quando a mio nonno si sono aggiunti mia nonna e poi mio zio, suo figlio, come se li avessero accolti.

Tra i viali li guardo, lo faccio con tutti i volti che vedo affacciarsi di fianco a me, e non posso fare a meno di pensare a tutte le storie che sono racchiuse dietro quelle foto. Ad esempio, penso a quando andavano dal panettiere o in spiaggia, quando si preparavano per una festa o per il loro compleanno, quando andavano dal parrucchiere o facevano una passeggiata con un amico. Penso a una vita in movimento che stona con quel luogo, dove la quiete e il cinguettio degli uccelli e l’odore intenso di fiori sono un tutt’uno indescrivibile ma chiaro e lampante per chi ha varcato almeno una volta quel cancello, per camminare tra le tombe.

Ogni tanto mi fermo davanti a queste foto, faccio il calcolo degli anni, e a volte vedo volti giovani di persone andate via in età anziana ma che hanno scelto di affidare l’imperituro ricordo a un aspetto giovanile, come se la morte si importasse di quante rughe ci fossero sui volti che ha accarezzato.


Ho sempre la sensazione di un nodo in gola, anche per quelle storie che in fin dei conti non mi appartengono, perché penso che ciascuna delle persone che ha affidato alla terra la custodia del proprio corpo meriti di aver avuto qualcuno che ne abbia rimpianto la vita almeno per un attimo. Ci pensano poi il vento, la pioggia, la salsedine, lo scorrere del tempo a lasciare un segno del proprio passaggio anche sulla pietra. Ed è proprio a quelle pietre solcate dal tempo che guardo con maggiore tenerezza, pietre che forse non hanno più mani calde che possano custodirle, accarezzarle, ricordarne il motivo. Nel mio recente passaggio gli occhi si sono soffermati su ciò che resta di una delle lapidi del Campo, non c’è foto né nome, resta solo un angelo di pietra: l’ultimo custode di un tempo, forse, troppo lontano per essere ricordato.

giovedì 4 marzo 2021

Dimmi una foto #2

Sono un po’ di giorni che penso al tempo, al suo scorrere inesorabile nonostante tutto. O meglio: al tempo che passa alla velocità di sempre, senza sosta o rallentamenti, mentre tutto intorno accade. Ci ho pensato senza particolari dietrologie filosofiche o partendo da grandi dissertazioni tra me e me, ma semplicemente notando che il 30 marzo sarà il mio compleanno e a me non sembra che questo anno sia passato.
La gentile premura di Viviana

Il 27 febbraio di un anno fa ho iniziato la lunga parentesi di home office o smart working che dir si voglia e da allora, a parte periodi relativamente brevi, ho sempre lavorato da casa. Sinceramente preferisco lavorare da casa perché, in caso contrario, dovrei prendere un tram e un treno per recarmi a lavoro e da quando c’è il covid preferisco evitare i mezzi pubblici. E così quest’anno è andato avanti, un giorno dietro l’altro, con la primavera di un anno fa che faceva capolino e illuminava tutto (in un modo impressionante qui in Alsazia), con l’estate che ci faceva tirare un gran respiro prima di ricadere in una bolla autunnale e in una impasse invernale. Pochi giorni fa mentre guardavo il calendario e realizzavo che i primi due mesi dell’anno ce li siamo messi alle spalle, parlando tra me e me mi son detta: “quest’anno compio 38 anni”. E invece no. Con sommo stupore e non poca meraviglia mi sono ricordata che siamo nel 2021 e che io, nata nel magico anno dei Mondiali del 1982, sto per compiere 39 anni. Ora non è l’età il problema, non ho alcuna angoscia nel constatare che gli “ENT” stanno volgendo al termine e che, a Dio piacendo, potrei rincontrarli solo allo scoccare di un secolo di girovagare su questa terra. Il fatto è che io il mio 38esimo anno di vita non riesco a visionarlo davanti ai miei occhi, e questo non perché il 2020 non abbia saputo regalare anche delle gioie alla mia vita. 

La meraviglia, il mare, la Costiera da Alfonso

Se torno indietro con lo sguardo a quello che ho fatto vedo un alternarsi di giorni a blocchi, perché molte delle giornate vissute sono state uguali tra di loro e con pochi accenti di singolarità, come dei pacchi da archiviare tutti insieme. Sono stati comunque 365+1 giorno, addirittura uno in più, ma io “non ho detto a nessuno” la mia età. Fateci caso: quando incontrate qualcuno per la prima volta, quando rincontrate qualcuno dopo tanto tempo, quando fate il punto della situazione su qualcosa e ci mettete l’età di mezzo, in qualche modo realizzate la vostra età, dite e ridite a voi stessi e agli altri gli anni della vostra vita, e io quest’anno non ho detto a nessuno quanti anni ho. È per questo che non mi sembra di aver mai compiuto 38 anni, perché non c’è stata una situazione, una persona, un momento, a cui io abbia potuto dirlo, palesarlo, realizzarlo. Mentre scrivo vedo su Facebook che nella mia città di origine l’annuale Fiera del Crocifisso, che ogni anno ha luogo a Salerno i venerdì di marzo, è stata giustamente rimandata. E anche qui, non è il non poter andare alla Fiera il punto, ma il profondo senso del procrastinare che da un anno ci portiamo dentro e che caratterizza il fuori. Penso che sia pieno il mondo di progetti pensati, forse annotati da qualche parte, fermi su un blocco o tra pensieri nebulosi. Rimandare a data da destinarsi è qualcosa che dopo un anno inizia a pesare. 

Roberta mi ricorda che non tutto ciò che sembra è

E lo dico con cognizione di causa e con un profondo senso di Com-Passione verso quanti si sono ammalati, verso quanti non ci sono più, verso chi ha perso una persona amata, di covid o no, verso chi si prende cura degli altri che siano sanitari, volontari, semplici persone che ancora sanno che esiste la pratica del bene comune. Quel bene comune che passa, innanzitutto, attraverso la profonda coscienza di vivere rispettando le barriere che ora ci sono necessarie. Una volta c’erano le barriere dell’indifferenza, ora dopo i balconi e le spiagge e gli aperitivi vedo barriere di indifferenza infrangere barriere di contenimento, spostando sempre più in là il momento in cui ci riapproprieremo del nostro tempo. 


Mia cugina Alessandra legge tra e oltre
Ci sono però, grazie a Dio e al buon cuore di tanti che ancora sanno essere umani, persone in grado di prendersi cura dell’altro nella semplicità di gesti quotidiani, che non hanno le luci della ribalta ma il lavorio del dietro le quinte. Sono figlia di un infermiere e di una casalinga tutto fare e sono abituata a guardare alle cose semplici. Io, ad esempio, sono profondamente coccolata da quanti hanno accolto l’invito a inviarmi scatti di vita da condividere nel luogo di questa virtuale quotidianità. Nelle immagini che mi stanno arrivando, con o senza parole per spiegare quel particolare frangente ripreso, c’è una mano tesa lunga tantimila chilometri che mi stropiccia i ricci e mi cinge in un abbraccio silenzioso: di bellezza, nonostante tutto, è pieno il mondo.


La mia settimana è iniziata con il rumore del mare dono di Francesca

martedì 23 febbraio 2021

Dimmi una foto #1

È iniziata per caso. Ero lì a girare tra i social, a fare uno dei pochi viaggi concessoci da circa un anno, a guardare tra foto larghe, particolari stretti, immagini sfocate, stati d’animo messi a fuoco, paesaggi di varia natura, e ho iniziato a pensare tra me e me “ah se l’avessi scattata io… ah, se fossi stata io lì”.

Perché un po’ la cosa è questa: andare. E, in questo, sapere di non poterlo fare o, forse, è meglio dire sapere di non doverlo fare. I confini non sono chiusi e, in fin dei conti, potrei fare il tampone (gratis, in Francia), prendere l’aereo e andare a Salerno, ma sinceramente non mi va. 

Il tramonto di Assunta
"Magari questa foto ti riempie i polmoni"
I motivi sono facilmente comprensibili, probabilmente non condivisibili, ma io questa storia della pandemia l’ho vissuta dal primo giorno e anche da prima (ho iniziato a seguire la situazione cinese a gennaio 2020) con una coscienza forte e con una certa radicalità nei confronti di scelte di prevenzione del peggio. Perché da italiana so bene che siamo storicamente il Paese del giorno dopo e, francamente, questa definizione mi sta stretta, sta stretta al mio modus essendi


Il mare di Natalia
In questo contesto pesante, perché dopo un anno la pesantezza è evidente, ho deciso di iniziare a guardare oltre e, in attesa che spazio e tempo coincidano, guardare a quei luoghi tanto desiderati. 
Ed è così che ho iniziato: rubando (con permesso) le foto dei miei amici sui social per ricondividere scatti di bellezza. 

In primis il mare, l’elemento che più mi manca di Salerno. E così via, fino a quando ho palesato questo atto di mariuolaggine (rubare, ndr): da quel momento ho iniziato a ricevere foto su foto e, con queste, messaggi e affetto e tanta di quella bellezza che mi si è alleggerito l’affanno e riempito il cuore. 

La buonanotte di mamma
Ho quindi deciso di condividere le foto che mi sono state inviate, un poco alla volta e in diversi post che pubblicherò nel corso dei giorni, affidando alle immagini le parole di chi mi ha pensato, di chi ha condiviso con me un momento o uno stato d’animo e, in alcuni casi, aggiungendo le parole che mi sono state scritte. Mi sono arrivate un po’ di foto da Salerno ma sarebbe bello ricevere foto da ogni dove, in Italia e non solo: di bellezza, nonostante tutto, è pieno il mondo. 


venerdì 12 febbraio 2021

Piccoli fiocchi di neve

È stata una settimana impegnativa, della serie che meno male che c’è la Maratona Mentana o ci sarebbe da farsi capa e mura senza ammortizzatori. Mentre osservo il variopinto panorama italiano dall’oblò della multimedialità, a Strasburgo ci stiamo deliziando da un po’ di giorni con la seconda ondata di freddo, quello serio, quello che durante le notti in cui non riesco a dormire controllo meteo e gradi a intervalli regolari di pipì. 

Che poi, abitando a un piano alto leggermente mansardato capita che la neve, una volta posatasi su tetto e finestre, ogni tanto si lasci romanticamente scivolare fino ad atterrare con un rumore sordo sul marciapiede. Stamattina, però, questo non è successo. Il tetto del palazzo di fronte si è chiazzato di bianco ma le mie finestre no. La neve si è posata come polline su vetro: i cristalli di neve si sono poggiati uno a uno, singolarmente, penso di non averli mai visti così. 

Questa immagine semplice mi ha fatto tornare alla mente un cartone animato che si chiama “Piccoli fiocchi di neve” e che mi piaceva molto. Così questa mattina, nel silenzio di casa, mentre il pc iniziava a caricarsi e una nuova giornata di lavoro stava per partire, per trenta secondi mi sono messa con la faccia vicino al vetro della finestra a osservare quei piccoli fiocchi di neve, mentre il ricordo del profumo della colazione e di mamma in cucina faceva capolino nella memoria di me bambina.



martedì 26 gennaio 2021

a-Dio

Ci sono giorni in cui andare a dormire è una sorta di liberazione, perché la testa è talmente dolorante da non riuscire a stare in equilibrio sul collo. Sono quei giorni in cui gli occhi si annebbiano e fanno fatica a restare aperti perché sono inondati dalla vita che gli scorre dentro, dietro le palpebre.

Ci sono giorni in cui le immagini rapprese sulla retina sono quei particolari che, non meno importanti del quadro d’insieme, riescono a renderti la totalità.

Ci sono lontananze che soffocano per la troppa aria che c’è in mezzo, per quelle braccia che provi ad allungare per afferrare mani che ti sfuggono e che non fai in tempo a chiudere tra le tue.

Ci sono mani che restano nella mente e nel cuore, sulla pelle che hanno toccato, su quel corpo che hanno sanato, curato, accompagnato, riabilitato alla vita.

Queste mani sono la porta di accesso ai ricordi che, mai dimenticati, sono tornati in tutta la loro forza tutti insieme, scatenando lo tsunami che ha inondato ogni cosa.

Ci sono notizie che non vorresti mai ricevere e che invece arrivano, mentre sei un po’ in pigiama e un po’ in giacca e camicia, in una riunione di lavoro tipica di questi tempi atipici. Sono notizie che scolorano il viso e tagliano la voce, notizie che si rincorrono lungo l’invisibile filo del telefono e degli affetti che provano a raggiungere tutti i pezzi coinvolti.

E se non fosse per la notizia in sé sarebbe da commuoversi per la condivisione del dolore, se non fosse il dolore stesso a farla da protagonista su tutto. Un dolore sordo difficile da tacere, persistente come un fischio nell’orecchio, fisso e fastidioso. È quello il momento in cui gli occhi cedono, la testa si stringe fino a comprimersi, il volto muta espressione.

In questo tempo che si fa beffe della normalità diventa impossibile anche dirsi “a-Dio”, che quello già è difficile di suo, immaginarsi nel tempo di una pandemia mondiale. Allora ti fai forte del bagaglio di vita vissuta e provi a viaggiare nel tempo in mancanza di spazi da percorrere, ed è dura perché ciò che c’è stato è stato bello, ciò che si è vissuto è stato vero, ciò che si è condiviso è stato autentico. E quanto più tutto ciò si concretizza nella memoria, tanto più caro è il biglietto da pagare per questo strano viaggio.

Nel corso della notte, dall’altra parte del mondo mi è stata inviata una foto di un tramonto sereno, con quel rosso di sera che annunciava una giornata di sole. Nella parte opposta di quel mondo il sole ha mantenuto la sua promessa e ha fatto capolino, tacendo il grigiore. Da questa terra di mezzo in cui mi trovo ho accompagnato il sole nel suo viaggio, dall’alba allo zenit, passando per l’ora della misericordia fino al suo lento spegnersi, per giungere al tramonto. 

Soltanto verso sera, a 1300 chilometri dal punto in cui il sole si appoggia sul mare, alcune nubi hanno fatto capolino qui, attorno alla luna. In quel momento ho capito che guardare al cielo è necessario, che quel luogo lontano che si staglia immenso sulla testa dolorante è il luogo a cui volgere gli occhi e tendere le braccia. E anche se è difficile anche solo da pronunciare, è guardando al cielo che parole mute potranno imparare a dire “a-Dio”, in attesa di afferrare mani che ti sfuggono e che si potranno ancora, un giorno, chiudere tra le tue.

venerdì 15 gennaio 2021

Alle 2 di notte tra un venerdì e un sabato a Strasburgo

Ho un momento di placido vuoto, di tempo rallentato che non preme su nessuna scadenza a breve termine. Sarò che sono le 2 di notte e ancora non dormo e quindi sì, il computer è già acceso e approfitto per riempire un foglio di parole.

Perché sveglia a quest’ora? Perché il venerdì c’è Propaganda Live su La7 e prima di un certo orario non si va a dormire (fatta eccezione per quando crollo a uso terza età sul divano, sotto due strati di ogni tipo di coperta).

Perché sveglia a quest’ora? Perché stasera ho ascoltato per la prima volta Night Call di Chicco Giuliani su RadioDeejay, e di dormire ora non se ne parla per niente.

Allora apro le foto degli ultimi giorni raccolte sul cellulare, tutte, quelle scattate e quelle ricevute, e scorgo un tappeto di neve in cui a fasi alternate si fanno spazio la foto di Francesco De Gregori e il video in cui canta con Antonello Venditti, che mia madre molto amorevolmente mi ha fatto e inviato mentre non ero davanti alla tv; le pizze di maccheroni fatte da mia zia Anna; i panni della mia cucina appesi vicino al vetro in bella vista; i croissant francesi preparati da mia cugina Antonia; mia sorella che si spara le pose; un pacco di farina ai 7 cereali (proposto da mia cugina di cui sopra a mia madre); il mio alberello di Natale nel suo ultimo giorno di gloria in queste festività 2020-2021; un set per pasta e formaggino proposto da mia cugina Rossella (ma il primato storicamente lo detiene mia zia Anna e tutti sappiamo il perché!); i bignè al cioccolato preparati da mia zia Anna (si, ancora lei).

Se fosse stato lo scorso weekend ci sarebbero state anche le nove pizze preparate da mia zia Silvana, che tiene una capa fresca come poche ed è indiscutibilmente la regina del “liev tutt cos’ il 6 gennaio che l’Epifania tutte le feste si porta via”. Giuro, non eravamo ancora alla colazione del 6 gennaio che a casa loro già non c’era più traccia delle feste.

Su tutto questo scorrere di immagini campeggia la neve, tanta, come mai ne avevo vista qui a Strasburgo da quando mi ci sono trasferita, quasi tre anni fa. Ed è bella, di un bianco luminoso che in queste sere a notte fonda in cucina non sembrava notte davvero. La neve che tutto copre e addolcisce spigoli e riempie vuoti, finché il tempo regge e la temperatura è perfetta. Ma non ci devi camminare se non con scarpe adatte, o si rischia di fare come me giovedì pomeriggio, che camminavo guardinga per evitare di cadere a chiappe a terra, non fosse altro che quello il quadro già è bello e la struttura si tiene su con lo scotch.  


Poi però capita come oggi pomeriggio, che la neve inizia a sciogliersi e il tetto di fronte torna a farsi vedere nel suo colore naturale, la neve per strada diventa ghiaccio sporco semi sciolto, la luce si abbassa, la notte torna al suo posto. 
“What am I here for” suona su Spotify, e in effetti la domanda è lecita, soprattutto a quest’ora. Sinceramente non lo so, ma sarà l’ora, sarà il silenzio rotto dal mio inconfondibile stile con cui zappo sulla tastiera del pc, sarà per la musica, sarà per questo flusso di poco conto che è fuoriuscito dalle mie mani, ma in questo piccolo istante del qui e ora di Strasburgo alle 2.37 della notte va tutto bene.  


mercoledì 11 novembre 2020

Per dieci minuti: un anno e mezzo dopo


Il 29 maggio 2019 avevo messo nero su bianco il mumble mumble che mi aveva fatto compagnia durante e dopo la lettura del libro “Per dieci minuti” di Chiara Gamberale. Per qualche ragione queste parole erano rimaste in una cartella del mio computer ma da qualche giorno sono tornate in mente e, sinceramente, non ricordavo bene cosa avessi scritto. 


Così stasera, mentre la Bignardi metteva fine all’Assedio sul 9, mi sono messa a spulciare tra le cartelle alla ricerca degli appunti di una vita “AC, Ante Covid” – come commentava stasera mia cugina Rossella in una lunga e interessante video chiacchierata. Appunti di vita un anno dopo il mio arrivo a Strasburgo e un anno prima della riapertura della prima ondata da coronavirus, che a pensarci mi sembra tutto ben più lontano nel tempo.

Mentre leggevo le mie parole di diciotto mesi fa ho pensato che oggi questi brevi dieci minuti non saprei come impiegarli nel fare qualcosa di non fatto, perché in questo tempo rallentato, ma anche fermo, dieci minuti di novità io sinceramente non riesco a trovare come impiegarli. Allora ho pensato che quei dieci minuti oggi sono necessari, per me, per cercare di trovare un angolo di tranquillità, un tempo di distacco da quanto sta accadendo per non restarne paralizzati. Un libro, un film, la musica, un quaderno su cui appuntare i pensieri, parlare con qualcuno, ascoltare il silenzio.  

Poi però rileggo le parole del 29 maggio 2019 e mi faccio la stessa domanda della protagonista:

“E poi? …Alla fine cosa si vince? Riavrò indietro la mia vita?


29 maggio 2019

Dieci minuti al giorno per levare le paranoie di torno. Dieci minuti al giorno per decostruire palizzate di certezze andate a male, su cui si inerpica quella muffa che rende tutto molle e destinato a deteriorarsi. “Per dieci minuti”, di Chiara Gamberale edito da Feltrinelli, è uno dei regali che ho trovato sotto l’albero dello scorso Natale: un libro con dedica, meditato, con una sua ragione d’essere nelle intenzioni dell’autrice e di chi lo ha scelto per me. Una storia romanzata con un fondo di verità, nata dall’esperienza della Gamberale che, per un mese, ha sperimentato in prima persona l’arte dei “dieci minuti” dedicati ogni giorno a fare qualcosa che non si è mai fatta e che mai si penserebbe di fare. Dieci minuti di lotta per l’indipendenza di quell’io profondo sepolto sotto strati di abitudini e personalità modellata da anni di attività umana e relazioni interpersonali.


Della Gamberale avevo letto un solo libro, “La zona cieca” (Feltrinelli), che mi aveva innervosita per tutto il tempo per l’atteggiamento della protagonista – Lidia – e per il senso di fallimento e di bruttezza che possono esserci nelle relazioni sentimentali e nella percezione della propria dignità dinanzi a un amore – quello per Lorenzo – che diventa brutto, brutto davvero. Ho letto con grande curiosità e con un piccolo senso di sfida “Per dieci minuti”, avevo bisogno di far riprendere la me lettrice e di farla riconciliare con la bella scrittura della Gamberale, che costruisce mondi in cui l’identificazione è questione di pochi secondi per quanto tutto appaia vivido.

«Scrivere — ha raccontato l’autrice in un’intervista al Corriere — è l’unico rimedio che ho trovato per sopportare l’esistenza. Una vocazione autentica… Da bambina complicata, l’unica forma di appagamento e pace era ascoltare storie. Poi ho imparato a leggere... Scrivere è sempre stato il mio modo di stare al mondo. Di resistere all’esistenza: di capirla».

Nel mentre e dopo aver terminato la lettura, ho cominciato a interrogarmi su questa storia esperienziale, sulle manie, sulle abitudini, su quelle piccole certezze che se da un lato ci aiutano nel caos quotidiano, d’altro canto possono rivelarsi delle gabbie dorate in cui ci confortiamo, senza andare al di là, senza scrutare oltre il limite che ci siamo precostituiti, con molteplici “senza” e nessun “con”.

I miei primi “dieci minuti” sono iniziati un sabato sera di metà gennaio in un locale di Strasburgo, a tarda serata, con una venezuelana e una spagnola come elementi di disturbo della mia normalità che, con estrema semplicità, hanno alzato il mio sguardo oltre un orizzonte certo. Un esercizio di piccoli passi messi uno dopo l’altro per modificare l’andatura e, se dovesse andare bene, la direzione. Una nuova chiacchierata, uscire prima da lavoro e pranzare fuori con una collega, mangiare libanese per la prima volta (e scoprire di amarlo profondamente), andare al cinema e vedere per la prima volta un film in lingua originale con sottotitoli in una lingua che non è la tua…

Il percorso di Chiara, la protagonista del libro, non è per nulla semplice e porta al cambiamento, a quelle conseguenze da cui non è possibile tornare indietro. Come la sforbiciata dei ricci capelli di Ato, la decisione di adottare, la scelta di cambiare casa. Una complessità che diventa tale nelle sue propaggini e che, invece, nasce da una cosa semplice, da una proposta:      

“Le va di fare un gioco? Per un mese, a partire da subito, per dieci minuti al giorno, faccia una cosa che non ha mai fatto”

“E poi? …Alla fine cosa si vince? Riavrò indietro la mia vita?”

“Ne riparliamo fra un mese… Intanto giochi, si impegni e non bari, mi raccomando”

“Non avevo niente da perdere… è diventata la mia occasione per provarci”.

 

 

lunedì 14 ottobre 2019

L'impermeabile giallo

Capita che in un giorno di quasi autunno ci si ritrovi a girare per le strade della città in cui vivi, quella della tua quotidianità, una città che inizi davvero a sentire tua anche se non lo è da sempre, una città che inizi ad amare anche se non è stata il primo amore perché il tuo sangue profuma di salsedine e qui con l’Ill sei tutt’al più parente del fiume Reno.

Ecco, in una giornata così, con qualche nuvola tutto attorno e un dolore dentro, capita che faccia capolino da una stradina del centro una ragazza sconosciuta con una giacca gialla, di quelle impermeabili, con i bottoni di plastica ben evidenti. Tipo quelle che portavamo da bambini o, meglio ancora, tipo la giacca gialla che mio zio Mimmo indossava allo stadio Arechi a Salerno quando pioveva, quando si andava a vedere tutti insieme la Salernitana: la stessa giacca impermeabile che indossava in quel Salernitana-Venezia in cui ci inzuppammo talmente di acqua che Mimmo ogni tanto svuotava le sue tasche mentre mio padre e io diventavamo spugne (e quell’anno a Natale, a Bolzano, pagammo cara quella pioggia!).
Quella ragazza con la giacca gialla è stata la prima di una lunga persecuzione che da un mese mi accompagna per le vie di Strasburgo. Ogni giacca apparsa all’improvviso nel mio campo visivo ha fatto cadere piccole squame, ogni goccia che scivolava lungo la plastica portava via grammi di anima appesantita. Ogni tocco di colore apparso nel suo fulgore sgargiante ha squarciato panorami grigi che si erano stagliati sul mio orizzonte.



Ho perso il conto delle giacche gialle che ho visto da quel giorno, probabilmente è la moda dell’anno e non me ne sono accorta. Fatto sta che Strasburgo è piena di impermeabili gialli e io, ogni volta che ne vedo uno, non posso fare a meno di sorridere.

domenica 8 settembre 2019

Domenica

Sarà che è domenica e che siamo sul filo del rasoio di una settimana che finisce e di una che inizia.
Sarà che ho messo il trapuntino delle mezze stagioni sul letto, quello che non mi fa sentire freddo ai piedi e che mi permette di dormire ancora col pantaloncino corto, se proprio ne sento l’esigenza, se proprio non ce la faccio ancora a capire che sta cambiando la stagione.
Sarà che fuori piove e dentro non lo so, ma qualcosa sta cambiando.
È nelle note di canzoni, tra le righe di parole che leggo, di testi che trascrivo, di cose dette in film e serie tv. È lì e si fa accostare piano piano, strusciando sul bordo della pelle come qualcosa quasi impercettibile, una piuma che ti sfiora e forse ti fa il solletico. 

Forse è nelle piante che ho trovato vive dopo due settimane di vita solitaria in casa, nel loro spirito di sopravvivenza da “piante del deserto” - come mi è stato detto da qualcuno prima di partire -, piante abituate all’aridità e a poca cura eppur capaci di sopravvivere, di vivere, di fiorire, di seccarsi e rifiorire.
Forse è nella loro forza e nella felpa che da qualche giorno indosso al risveglio per schermarmi dal freddo che sento, in gesti nuovi ma anche no. Forse è in parole autentiche arrivate da fonti inattese e da gocce di acqua sgorgate da più fonti.

Forse è nella malinconia della sera, nei ricordi che affiorano, nelle verità fasulle e nelle menzogne celate. Forse è in ciò che si credeva e che non era e in ciò che pur essendo non sembra più, perché il valore e i valori non sono merce di scambio da barattare a buon mercato.
Forse sarà che è saltata la diretta della partita di calcio e sono rimasta sola davanti a uno schermo improvvisamente scuro, vuoto di immagini e di senso.
Forse è l’ingranaggio di una routine saltata, interrotta, che lascia tempo in abbondanza.
Forse è stato o forse no, avrebbe potuto ma anche no, sarebbe ma non è.
Forse sarà, ma questo non lo so, non ancora. Forse lo dirà la nuova stagione.

Mano nella mano

All’improvviso una mano afferra la mia nel tentativo di placare il panico e, mentre mi giro, vedo due occhi fermi e rassicuranti, dritti nei...