All’improvviso una mano afferra la mia nel tentativo di placare il panico e, mentre mi giro, vedo due occhi fermi e rassicuranti, dritti nei miei che fermi, invece, non riuscivano proprio a stare.
È da domenica che penso a ripenso
al volo che da Roma mi ha riportato a Basilea, sulla strada di “casa” verso
Strasburgo. Da due anni mi capita di vivere i viaggi in aereo con un po’ di
apprensione, ma poi normalmente tutto si scioglie come neve al sole qualche
minuto dopo il decollo. Non è stato così il 26 settembre, a causa di una
perturbazione inattesa in volo durata quaranta interminabili minuti. Viaggiavo sola,
insieme a un centinaio di persone ma pur sempre sola con i miei pensieri e le
mie ansie da volo. Che poi, in auto o dal sedile di un aereo, i piedi sono sempre
lì puntati a spingere pedali invisibili.
Mi guardavo attorno: una hostess
aveva captato la mia preoccupazione e, passando, si era rivolta a me con parole
gentili, posando una mano delicata e forte sulla mia spalla. La sua mano. Ho puntato
poi tutto sulla routine, attendendo il carrello degli snack consapevole che
quello sarebbe stato il segno di un equilibrio certo. Ma quando ho provato a
girarmi alla ricerca del carrello, ho visto che anche gli assistenti di volo erano
seduti cercando con le mani di mantenersi saldamente ai loro sedili.
È in questo momento – mentre la
mente faceva andata e ritorno tra mille e zero pensieri, quando cercavo attorno
a me una mano da afferrare perché il bracciolo era ormai poca cosa – che una
mano afferra la mia e la stringe.
Era da prima del 26 febbraio 2020
che una mano non mi afferrava senza che io pensassi al gel igienizzante. Quel giorno,
che ricordo molto bene, ho comprato le prime due (e rare all’epoca) mascherine
e il gel che mi avrebbero fatto compagnia nelle successive tre settimane di
isolamento. Da quel momento il gel è diventato un punto fermo, un oggetto
onnipresente, un gesto automatico. Quando poi, domenica stessa, ho ripensato a
quel gesto mi sono resa conto che non avevo in alcun modo pensato di dover igienizzare
le mani, un gesto che se prima del covid già era parte di me nei tragitti in
tram e treno di tutti i giorni, da un anno e mezzo a questa parte è una vera
necessità per arginare le paure da coronavirus. Quello che riflettendo mi ha
colpito, in seconda battuta, è stato realizzare concretamente la distanza che
si è creata in oltre diciotto mesi, uno iato umano e sociale che spesso è
difficile colmare. A volte ma non domenica, quando la paura di qualcosa di
totalmente ingestibile ha riportato alla luce la vera natura, tutta quella
umanità messa sottovuoto che è tornata a respirare seppur da sotto la
mascherina.
Quella mano che mi ha afferrato ha
un nome, Silvana, e una vita di progetti e sogni piena dei suoi meravigliosi
ventiquattro anni. La sua mano, che pochi istanti prima era tra le mani del suo
fidanzato Nunzio, non ha esitato a venire verso di me, non ci sono state
barriere igienizzanti e timori di contaminazione a bloccarla: una mano nella
mano di Nunzio e l’altra ad afferrare la mia, una catena umana di sostegno. E non
che il panico non circolasse attorno: nel dare serenità a me ci siamo trovati,
poi, a darcela reciprocamente.
Silvana e Nunzio hanno due nomi
tradizionali, nel sentirli ho pensato che sono nomi che sanno di buono, di
semplicità e operosità, come i frammenti di vita che mi hanno condiviso mentre
esorcizzavamo il tempo e la paura. Perché quelle mani che domenica mi hanno
salvata sono mani che studiano e faticano quotidianamente per costruire un
futuro dignitoso.
Quando siamo scesi dall’aereo io
e Silvana avremmo voluto inginocchiarci e baciare il suolo su cui abbiamo
poggiato i piedi, ma in territorio svizzero questo gesto avrebbe potuto
scatenare un TSO. Abbiamo chiacchierato lungamente, perché anche se non ci
conoscevamo avevamo condiviso un gesto forte. Poco prima di andare, mascherina
sempre in volto ci siamo salutati in modo goffo, un abbraccio ascellare di cui
sono diventata esperta. E mentre le mani si allontanavano ho affidato tutta la
mia gratitudine agli occhi, gli unici in grado di esprimersi a distanza.