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Piazza di Cinecittà - Capolinea 548 |
La signora di fronte a me, seduta sul sedile del 548, che in questo ultimo rigurgito di agosto si agita al telefono, parla di “porte di cesso” e trasparenze inopportune. Qualcuno, dall’altra parte del cellulare, deve aver ristrutturato casa scegliendo una porta che sembra non tenere in alcuna considerazione la privacy. Il suddetto interlocutore ha lasciato poco spazio all’immaginazione, permettendo – a chi guarda da fuori e a chi opera da dentro – di mantenere una comunicazione visiva che non lascia adito al vedo-non-vedo.
Questa cosa mi accompagna per tutto il tragitto da lavoro alla metro, in un percorso che è una via crucis arida. Lo sguardo vitreo di questa donna dagli occhi azzurro annacquato, le labbra rigonfie in un modo caricaturale, il cellulare usato come un microfono, le danno un senso di avvilimento umano, di decadimento, di mortificazione, di profonda solitudine. In questi quasi 8 anni di vita romana sono tante le solitudini intercettate, nascoste dietro una voce troppo alta al telefono, un dialetto “strascicato”, sprazzi di follia o sguardi bassi, fermi a mezz’aria nel vuoto. Roma, città bella ed eterna, metropoli vasta che affascina dall’alto del Gianicolo, si mostra casa di monadi solitarie se guardata da vicino, a tu per tu con l’umanità che la popola. L’umanità di quelle periferie lontane dalle belle passeggiate, abbandonata in municipi contrassegnati da un numero romano che della gloria della Roma Caput Mundi non ha quasi nulla più. È l’umanità che vedo in una signora nella zona del lavoro, al mattino, mentre cammino con le cuffie nelle orecchie e sono intenta a scrutare volti e posture, e lei è puntualmente lì, tra il viale e la traversa, con le guance colorate, il foulard in testa annodato sotto il mento, gli enormi occhiali da sole che provano a chiudere la visuale di un volto su cui emerge il rosso acceso e sbavato di un rossetto troppo vistoso su un viso bianco cipria.
Poi c’è la Roma bella, quella dei sanpietrini e degli archi che aprono lo sguardo su scorci d’incanto, Roma del Lungotevere e di Corso Vittorio Emanuele. Ma quella è tutta un’altra linea.
Questa cosa mi accompagna per tutto il tragitto da lavoro alla metro, in un percorso che è una via crucis arida. Lo sguardo vitreo di questa donna dagli occhi azzurro annacquato, le labbra rigonfie in un modo caricaturale, il cellulare usato come un microfono, le danno un senso di avvilimento umano, di decadimento, di mortificazione, di profonda solitudine. In questi quasi 8 anni di vita romana sono tante le solitudini intercettate, nascoste dietro una voce troppo alta al telefono, un dialetto “strascicato”, sprazzi di follia o sguardi bassi, fermi a mezz’aria nel vuoto. Roma, città bella ed eterna, metropoli vasta che affascina dall’alto del Gianicolo, si mostra casa di monadi solitarie se guardata da vicino, a tu per tu con l’umanità che la popola. L’umanità di quelle periferie lontane dalle belle passeggiate, abbandonata in municipi contrassegnati da un numero romano che della gloria della Roma Caput Mundi non ha quasi nulla più. È l’umanità che vedo in una signora nella zona del lavoro, al mattino, mentre cammino con le cuffie nelle orecchie e sono intenta a scrutare volti e posture, e lei è puntualmente lì, tra il viale e la traversa, con le guance colorate, il foulard in testa annodato sotto il mento, gli enormi occhiali da sole che provano a chiudere la visuale di un volto su cui emerge il rosso acceso e sbavato di un rossetto troppo vistoso su un viso bianco cipria.
Poi c’è la Roma bella, quella dei sanpietrini e degli archi che aprono lo sguardo su scorci d’incanto, Roma del Lungotevere e di Corso Vittorio Emanuele. Ma quella è tutta un’altra linea.