martedì 28 settembre 2021

Mano nella mano

All’improvviso una mano afferra la mia nel tentativo di placare il panico e, mentre mi giro, vedo due occhi fermi e rassicuranti, dritti nei miei che fermi, invece, non riuscivano proprio a stare.

È da domenica che penso a ripenso al volo che da Roma mi ha riportato a Basilea, sulla strada di “casa” verso Strasburgo. Da due anni mi capita di vivere i viaggi in aereo con un po’ di apprensione, ma poi normalmente tutto si scioglie come neve al sole qualche minuto dopo il decollo. Non è stato così il 26 settembre, a causa di una perturbazione inattesa in volo durata quaranta interminabili minuti. Viaggiavo sola, insieme a un centinaio di persone ma pur sempre sola con i miei pensieri e le mie ansie da volo. Che poi, in auto o dal sedile di un aereo, i piedi sono sempre lì puntati a spingere pedali invisibili.

Mi guardavo attorno: una hostess aveva captato la mia preoccupazione e, passando, si era rivolta a me con parole gentili, posando una mano delicata e forte sulla mia spalla. La sua mano. Ho puntato poi tutto sulla routine, attendendo il carrello degli snack consapevole che quello sarebbe stato il segno di un equilibrio certo. Ma quando ho provato a girarmi alla ricerca del carrello, ho visto che anche gli assistenti di volo erano seduti cercando con le mani di mantenersi saldamente ai loro sedili.

È in questo momento – mentre la mente faceva andata e ritorno tra mille e zero pensieri, quando cercavo attorno a me una mano da afferrare perché il bracciolo era ormai poca cosa – che una mano afferra la mia e la stringe.

Era da prima del 26 febbraio 2020 che una mano non mi afferrava senza che io pensassi al gel igienizzante. Quel giorno, che ricordo molto bene, ho comprato le prime due (e rare all’epoca) mascherine e il gel che mi avrebbero fatto compagnia nelle successive tre settimane di isolamento. Da quel momento il gel è diventato un punto fermo, un oggetto onnipresente, un gesto automatico. Quando poi, domenica stessa, ho ripensato a quel gesto mi sono resa conto che non avevo in alcun modo pensato di dover igienizzare le mani, un gesto che se prima del covid già era parte di me nei tragitti in tram e treno di tutti i giorni, da un anno e mezzo a questa parte è una vera necessità per arginare le paure da coronavirus. Quello che riflettendo mi ha colpito, in seconda battuta, è stato realizzare concretamente la distanza che si è creata in oltre diciotto mesi, uno iato umano e sociale che spesso è difficile colmare. A volte ma non domenica, quando la paura di qualcosa di totalmente ingestibile ha riportato alla luce la vera natura, tutta quella umanità messa sottovuoto che è tornata a respirare seppur da sotto la mascherina.

Quella mano che mi ha afferrato ha un nome, Silvana, e una vita di progetti e sogni piena dei suoi meravigliosi ventiquattro anni. La sua mano, che pochi istanti prima era tra le mani del suo fidanzato Nunzio, non ha esitato a venire verso di me, non ci sono state barriere igienizzanti e timori di contaminazione a bloccarla: una mano nella mano di Nunzio e l’altra ad afferrare la mia, una catena umana di sostegno. E non che il panico non circolasse attorno: nel dare serenità a me ci siamo trovati, poi, a darcela reciprocamente.

Silvana e Nunzio hanno due nomi tradizionali, nel sentirli ho pensato che sono nomi che sanno di buono, di semplicità e operosità, come i frammenti di vita che mi hanno condiviso mentre esorcizzavamo il tempo e la paura. Perché quelle mani che domenica mi hanno salvata sono mani che studiano e faticano quotidianamente per costruire un futuro dignitoso.

Quando siamo scesi dall’aereo io e Silvana avremmo voluto inginocchiarci e baciare il suolo su cui abbiamo poggiato i piedi, ma in territorio svizzero questo gesto avrebbe potuto scatenare un TSO. Abbiamo chiacchierato lungamente, perché anche se non ci conoscevamo avevamo condiviso un gesto forte. Poco prima di andare, mascherina sempre in volto ci siamo salutati in modo goffo, un abbraccio ascellare di cui sono diventata esperta. E mentre le mani si allontanavano ho affidato tutta la mia gratitudine agli occhi, gli unici in grado di esprimersi a distanza.

mercoledì 8 settembre 2021

“Il tempo non torna più"

Stavo parlando con un’amica, in quel modo strano del parlare che sono gli audiomessaggi di whastapp, e le dicevo che il tempo non torna più, e mentre lo dicevo ho iniziato a sentire la musica salire e la voce di Fiorella Mannoia farsi spazio. Quando ero bambina ed era domenica e restavo a casa ricordo mia madre girare per casa a fare le pulizie cantando. La radiolona accesa, la manopola della radio su cui c’era scritto “tuner” per cambiare le stazioni radiofoniche alla ricerca di una canzone conosciuta e amata. Il giro della manopola era a tratti compulsivo, lo era quando a girare ero io, ma ricordo che anche dall’altra stanza mamma riconosceva la voce di Fiorella e allora non si poteva andare oltre. Mi piaceva quella voce, alcune sue canzoni ho iniziato a cantarle quando andavo alle elementari, anche se forse non le capivo fino in fondo.

Il 26 Luglio 2002 avevo vent’anni ed ero per la prima volta allo Stadio San Paolo di Napoli, nella mitica Curva B, per uno dei più bei concerti a cui abbia assistito: Francesco De Gregori, Pino Daniele, Ron e Fiorella Mannoia quell’estate erano in tour attraverso l’Italia. Per la prima volta ascoltavo dal vivo la voce che aveva accompagnato le mie domeniche casalinghe di bambina. Quella serata la ricordo da prima che iniziasse, sento anche ora l’adrenalina mia e di chi era con me “nel prima”, la malinconica emozione della fine del concerto. Quella sera ho ascoltato per la prima volta “Joe Temerario” di Ron. Quando ci ripenso mi rendo conto che di quella serata resta come un’eco che di tanto in tanto riecheggia attraverso la musica, in quella memoria delle emozioni che sta lì silenziosa e raggomitolata su se stessa per riemergere e dipanarsi all’improvviso.

“Il tempo non torna più” canta Fiorella Mannoia attraverso le parole scritte da Piero Fabrizi ed Enrico Ruggeri, e mentre ci pensavo ho aperto il computer e sono andata a cercare in quel mare magnum di archivio della malinconia che sa (anche) essere “l’internet” (cit. Core). Ho trovato il testo e prima me lo sono cantato con il quartetto, degna di un concerto live dalla Curva di casa mia a Straburgo e poi sono andata a rileggerlo con attenzione. Allora ho ripensato alla chiacchierata con la mia amica su whatsapp, in quel luogo non luogo che è una App, in cui lo spazio non c’è e il tempo si rincorre, e mi sono accorta che quelle parole scritte nel 1988 erano cantate dalla me di sei anni per trovare un senso pieno soltanto nella me “grande”, nella persona adulta che il tempo mi ha fatto diventare. Forse una canzone è un po’ una macchina del tempo.

 

Spesso le nostre giornate si complicano

Mentre le perplessità rimangono qui

E ci si sposta lontano

In un orizzonte più strano

E i conti già fatti non tornano mai

No, il tempo non torna più

E ieri non eri tu, oggi chi sei?

Cos'è che cambia la vita in noi

E quello che adesso hai

Domani non lo vorrai

Spesso le nostre coscienze ci mormorano

Frasi che poi nascondiamo dentro di noi

E ci sentiamo colpiti per come veniamo cambiati

Parole nascoste non escono mai

No, il tempo non torna più

E forse rimani tu, con quello che hai

Cos'è che grida nascosto in noi

Stanotte non dormirai

Ma non capirai

No, il tempo non torna più

E ieri non eri tu, oggi chi sei?

Credi il tempo non torna più

No, il tempo non torna più

Vedi, il tempo non torna più

No, il tempo non torna più

Mano nella mano

All’improvviso una mano afferra la mia nel tentativo di placare il panico e, mentre mi giro, vedo due occhi fermi e rassicuranti, dritti nei...