martedì 26 gennaio 2021

a-Dio

Ci sono giorni in cui andare a dormire è una sorta di liberazione, perché la testa è talmente dolorante da non riuscire a stare in equilibrio sul collo. Sono quei giorni in cui gli occhi si annebbiano e fanno fatica a restare aperti perché sono inondati dalla vita che gli scorre dentro, dietro le palpebre.

Ci sono giorni in cui le immagini rapprese sulla retina sono quei particolari che, non meno importanti del quadro d’insieme, riescono a renderti la totalità.

Ci sono lontananze che soffocano per la troppa aria che c’è in mezzo, per quelle braccia che provi ad allungare per afferrare mani che ti sfuggono e che non fai in tempo a chiudere tra le tue.

Ci sono mani che restano nella mente e nel cuore, sulla pelle che hanno toccato, su quel corpo che hanno sanato, curato, accompagnato, riabilitato alla vita.

Queste mani sono la porta di accesso ai ricordi che, mai dimenticati, sono tornati in tutta la loro forza tutti insieme, scatenando lo tsunami che ha inondato ogni cosa.

Ci sono notizie che non vorresti mai ricevere e che invece arrivano, mentre sei un po’ in pigiama e un po’ in giacca e camicia, in una riunione di lavoro tipica di questi tempi atipici. Sono notizie che scolorano il viso e tagliano la voce, notizie che si rincorrono lungo l’invisibile filo del telefono e degli affetti che provano a raggiungere tutti i pezzi coinvolti.

E se non fosse per la notizia in sé sarebbe da commuoversi per la condivisione del dolore, se non fosse il dolore stesso a farla da protagonista su tutto. Un dolore sordo difficile da tacere, persistente come un fischio nell’orecchio, fisso e fastidioso. È quello il momento in cui gli occhi cedono, la testa si stringe fino a comprimersi, il volto muta espressione.

In questo tempo che si fa beffe della normalità diventa impossibile anche dirsi “a-Dio”, che quello già è difficile di suo, immaginarsi nel tempo di una pandemia mondiale. Allora ti fai forte del bagaglio di vita vissuta e provi a viaggiare nel tempo in mancanza di spazi da percorrere, ed è dura perché ciò che c’è stato è stato bello, ciò che si è vissuto è stato vero, ciò che si è condiviso è stato autentico. E quanto più tutto ciò si concretizza nella memoria, tanto più caro è il biglietto da pagare per questo strano viaggio.

Nel corso della notte, dall’altra parte del mondo mi è stata inviata una foto di un tramonto sereno, con quel rosso di sera che annunciava una giornata di sole. Nella parte opposta di quel mondo il sole ha mantenuto la sua promessa e ha fatto capolino, tacendo il grigiore. Da questa terra di mezzo in cui mi trovo ho accompagnato il sole nel suo viaggio, dall’alba allo zenit, passando per l’ora della misericordia fino al suo lento spegnersi, per giungere al tramonto. 

Soltanto verso sera, a 1300 chilometri dal punto in cui il sole si appoggia sul mare, alcune nubi hanno fatto capolino qui, attorno alla luna. In quel momento ho capito che guardare al cielo è necessario, che quel luogo lontano che si staglia immenso sulla testa dolorante è il luogo a cui volgere gli occhi e tendere le braccia. E anche se è difficile anche solo da pronunciare, è guardando al cielo che parole mute potranno imparare a dire “a-Dio”, in attesa di afferrare mani che ti sfuggono e che si potranno ancora, un giorno, chiudere tra le tue.

venerdì 15 gennaio 2021

Alle 2 di notte tra un venerdì e un sabato a Strasburgo

Ho un momento di placido vuoto, di tempo rallentato che non preme su nessuna scadenza a breve termine. Sarò che sono le 2 di notte e ancora non dormo e quindi sì, il computer è già acceso e approfitto per riempire un foglio di parole.

Perché sveglia a quest’ora? Perché il venerdì c’è Propaganda Live su La7 e prima di un certo orario non si va a dormire (fatta eccezione per quando crollo a uso terza età sul divano, sotto due strati di ogni tipo di coperta).

Perché sveglia a quest’ora? Perché stasera ho ascoltato per la prima volta Night Call di Chicco Giuliani su RadioDeejay, e di dormire ora non se ne parla per niente.

Allora apro le foto degli ultimi giorni raccolte sul cellulare, tutte, quelle scattate e quelle ricevute, e scorgo un tappeto di neve in cui a fasi alternate si fanno spazio la foto di Francesco De Gregori e il video in cui canta con Antonello Venditti, che mia madre molto amorevolmente mi ha fatto e inviato mentre non ero davanti alla tv; le pizze di maccheroni fatte da mia zia Anna; i panni della mia cucina appesi vicino al vetro in bella vista; i croissant francesi preparati da mia cugina Antonia; mia sorella che si spara le pose; un pacco di farina ai 7 cereali (proposto da mia cugina di cui sopra a mia madre); il mio alberello di Natale nel suo ultimo giorno di gloria in queste festività 2020-2021; un set per pasta e formaggino proposto da mia cugina Rossella (ma il primato storicamente lo detiene mia zia Anna e tutti sappiamo il perché!); i bignè al cioccolato preparati da mia zia Anna (si, ancora lei).

Se fosse stato lo scorso weekend ci sarebbero state anche le nove pizze preparate da mia zia Silvana, che tiene una capa fresca come poche ed è indiscutibilmente la regina del “liev tutt cos’ il 6 gennaio che l’Epifania tutte le feste si porta via”. Giuro, non eravamo ancora alla colazione del 6 gennaio che a casa loro già non c’era più traccia delle feste.

Su tutto questo scorrere di immagini campeggia la neve, tanta, come mai ne avevo vista qui a Strasburgo da quando mi ci sono trasferita, quasi tre anni fa. Ed è bella, di un bianco luminoso che in queste sere a notte fonda in cucina non sembrava notte davvero. La neve che tutto copre e addolcisce spigoli e riempie vuoti, finché il tempo regge e la temperatura è perfetta. Ma non ci devi camminare se non con scarpe adatte, o si rischia di fare come me giovedì pomeriggio, che camminavo guardinga per evitare di cadere a chiappe a terra, non fosse altro che quello il quadro già è bello e la struttura si tiene su con lo scotch.  


Poi però capita come oggi pomeriggio, che la neve inizia a sciogliersi e il tetto di fronte torna a farsi vedere nel suo colore naturale, la neve per strada diventa ghiaccio sporco semi sciolto, la luce si abbassa, la notte torna al suo posto. 
“What am I here for” suona su Spotify, e in effetti la domanda è lecita, soprattutto a quest’ora. Sinceramente non lo so, ma sarà l’ora, sarà il silenzio rotto dal mio inconfondibile stile con cui zappo sulla tastiera del pc, sarà per la musica, sarà per questo flusso di poco conto che è fuoriuscito dalle mie mani, ma in questo piccolo istante del qui e ora di Strasburgo alle 2.37 della notte va tutto bene.  


Mano nella mano

All’improvviso una mano afferra la mia nel tentativo di placare il panico e, mentre mi giro, vedo due occhi fermi e rassicuranti, dritti nei...