Ci sono giorni in cui andare a dormire è una sorta di liberazione, perché la testa è talmente dolorante da non riuscire a stare in equilibrio sul collo. Sono quei giorni in cui gli occhi si annebbiano e fanno fatica a restare aperti perché sono inondati dalla vita che gli scorre dentro, dietro le palpebre.
Ci sono giorni in cui le immagini
rapprese sulla retina sono quei particolari che, non meno importanti del quadro
d’insieme, riescono a renderti la totalità.
Ci sono lontananze che soffocano
per la troppa aria che c’è in mezzo, per quelle braccia che provi ad allungare
per afferrare mani che ti sfuggono e che non fai in tempo a chiudere tra le
tue.
Ci sono mani che restano nella
mente e nel cuore, sulla pelle che hanno toccato, su quel corpo che hanno
sanato, curato, accompagnato, riabilitato alla vita.
Queste mani sono la porta di
accesso ai ricordi che, mai dimenticati, sono tornati in tutta la loro forza
tutti insieme, scatenando lo tsunami che ha inondato ogni cosa.
E se non fosse per la notizia in sé
sarebbe da commuoversi per la condivisione del dolore, se non fosse il dolore
stesso a farla da protagonista su tutto. Un dolore sordo difficile da tacere,
persistente come un fischio nell’orecchio, fisso e fastidioso. È quello il
momento in cui gli occhi cedono, la testa si stringe fino a comprimersi, il
volto muta espressione.
In questo tempo che si fa beffe
della normalità diventa impossibile anche dirsi “a-Dio”, che quello già è
difficile di suo, immaginarsi nel tempo di una pandemia mondiale. Allora ti fai
forte del bagaglio di vita vissuta e provi a viaggiare nel tempo in mancanza
di spazi da percorrere, ed è dura perché ciò che c’è stato è stato bello, ciò
che si è vissuto è stato vero, ciò che si è condiviso è stato autentico. E quanto
più tutto ciò si concretizza nella memoria, tanto più caro è il biglietto da
pagare per questo strano viaggio.
Soltanto verso sera, a
1300 chilometri dal punto in cui il sole si appoggia sul mare, alcune nubi
hanno fatto capolino qui, attorno alla luna. In quel momento ho capito che
guardare al cielo è necessario, che quel luogo lontano che si staglia immenso
sulla testa dolorante è il luogo a cui volgere gli occhi e tendere le braccia. E
anche se è difficile anche solo da pronunciare, è guardando al cielo che parole
mute potranno imparare a dire “a-Dio”, in attesa di afferrare mani che ti
sfuggono e che si potranno ancora, un giorno, chiudere tra le tue.