lunedì 14 ottobre 2019

L'impermeabile giallo

Capita che in un giorno di quasi autunno ci si ritrovi a girare per le strade della città in cui vivi, quella della tua quotidianità, una città che inizi davvero a sentire tua anche se non lo è da sempre, una città che inizi ad amare anche se non è stata il primo amore perché il tuo sangue profuma di salsedine e qui con l’Ill sei tutt’al più parente del fiume Reno.

Ecco, in una giornata così, con qualche nuvola tutto attorno e un dolore dentro, capita che faccia capolino da una stradina del centro una ragazza sconosciuta con una giacca gialla, di quelle impermeabili, con i bottoni di plastica ben evidenti. Tipo quelle che portavamo da bambini o, meglio ancora, tipo la giacca gialla che mio zio Mimmo indossava allo stadio Arechi a Salerno quando pioveva, quando si andava a vedere tutti insieme la Salernitana: la stessa giacca impermeabile che indossava in quel Salernitana-Venezia in cui ci inzuppammo talmente di acqua che Mimmo ogni tanto svuotava le sue tasche mentre mio padre e io diventavamo spugne (e quell’anno a Natale, a Bolzano, pagammo cara quella pioggia!).
Quella ragazza con la giacca gialla è stata la prima di una lunga persecuzione che da un mese mi accompagna per le vie di Strasburgo. Ogni giacca apparsa all’improvviso nel mio campo visivo ha fatto cadere piccole squame, ogni goccia che scivolava lungo la plastica portava via grammi di anima appesantita. Ogni tocco di colore apparso nel suo fulgore sgargiante ha squarciato panorami grigi che si erano stagliati sul mio orizzonte.



Ho perso il conto delle giacche gialle che ho visto da quel giorno, probabilmente è la moda dell’anno e non me ne sono accorta. Fatto sta che Strasburgo è piena di impermeabili gialli e io, ogni volta che ne vedo uno, non posso fare a meno di sorridere.

domenica 8 settembre 2019

Domenica

Sarà che è domenica e che siamo sul filo del rasoio di una settimana che finisce e di una che inizia.
Sarà che ho messo il trapuntino delle mezze stagioni sul letto, quello che non mi fa sentire freddo ai piedi e che mi permette di dormire ancora col pantaloncino corto, se proprio ne sento l’esigenza, se proprio non ce la faccio ancora a capire che sta cambiando la stagione.
Sarà che fuori piove e dentro non lo so, ma qualcosa sta cambiando.
È nelle note di canzoni, tra le righe di parole che leggo, di testi che trascrivo, di cose dette in film e serie tv. È lì e si fa accostare piano piano, strusciando sul bordo della pelle come qualcosa quasi impercettibile, una piuma che ti sfiora e forse ti fa il solletico. 

Forse è nelle piante che ho trovato vive dopo due settimane di vita solitaria in casa, nel loro spirito di sopravvivenza da “piante del deserto” - come mi è stato detto da qualcuno prima di partire -, piante abituate all’aridità e a poca cura eppur capaci di sopravvivere, di vivere, di fiorire, di seccarsi e rifiorire.
Forse è nella loro forza e nella felpa che da qualche giorno indosso al risveglio per schermarmi dal freddo che sento, in gesti nuovi ma anche no. Forse è in parole autentiche arrivate da fonti inattese e da gocce di acqua sgorgate da più fonti.

Forse è nella malinconia della sera, nei ricordi che affiorano, nelle verità fasulle e nelle menzogne celate. Forse è in ciò che si credeva e che non era e in ciò che pur essendo non sembra più, perché il valore e i valori non sono merce di scambio da barattare a buon mercato.
Forse sarà che è saltata la diretta della partita di calcio e sono rimasta sola davanti a uno schermo improvvisamente scuro, vuoto di immagini e di senso.
Forse è l’ingranaggio di una routine saltata, interrotta, che lascia tempo in abbondanza.
Forse è stato o forse no, avrebbe potuto ma anche no, sarebbe ma non è.
Forse sarà, ma questo non lo so, non ancora. Forse lo dirà la nuova stagione.

lunedì 5 agosto 2019

La legge di Lavoisier

Un anno fa era domenica sera e c'era lo sport d'estate, le prime amichevoli di calcio, il tuo Milan che in questo ultimo campionato ho osservato pensando sempre a cosa avresti detto.
Un anno fa sarebbe stata la tua ultima sera, la tua ultima cena (che poi, non è che tu cenassi la sera, tutt'al più un po' di frutta).
L'ultima volta che avresti preso il pullman, o il passaggio di un amico (io ero già a Strasburgo e non potevo litigare con te per riaccompagnarti a casa). 
L'ultima volta che avresti infilato e girato le chiavi nella toppa, fatto scattare la serratura, tolte le scarpe, scrollata di dosso la fatica di una intera e calda giornata d'agosto, la fatica.
L'ultima volta che il tuo telefono avrebbe squillato, inviato suoni e messaggi, parole, risate, sfottò, sentimenti. 
È un anno che è passato da quella sera e ricordo bene quello che facevo io, un anno fa, domenica 5 agosto, quando i timori per altro erano ancora vivi e la tua vita ancora lì a farci compagnia. Mentre leggevo, prima di addormentarmi, prima di spegnere la luce.
Ricordo tutto di quella domenica sera e di un risveglio faticoso, come ogni lunedì. E mentre la sveglia suonava e automaticamente muovevo i miei passi, i tuoi si erano appena fermati: il cuore aveva rallentato, trovandoti troppo assorto nel tuo corpo stanco e nei tuoi pensieri bisognosi di riposo per farti rendere conto che la fatica ti stava lasciando, che l'affanno e gli affanni stavano finendo.
Non per noi, che ognuno nel luogo della propria vita siamo stati attaccati dalla tua notizia che ha squarciato l'alba e il silenzio. Troppo giovane, troppo presto, troppo amato.
Io aprivo la porta per uscire e andare a lavoro e tu uscivi dalla porta della tua vita, sornione come il sorriso con cui ci hai accolto, con cui ci hai salutato. 
Tengo per me il sentire, è uno scrigno di sentimenti troppo prezioso da serbare gelosamente, un luogo del cuore a cui tornare con la mente non per cadere preda di una malinconia paralizzante ma per ricordare, per tenere vivo il ricordo di una vita, la tua, condivisa e tante volte donata (ah, quelle trecce brioche!). Un luogo a cui tornare per ridere, perché delle tante cose che ricordo di te su tutte si erge l'ironia (e quel manifesto sotto casa per celebrare le esequie dell'Inter).
Qui è quando ero giovane alla mia laurea, con 10 anni e qualche chilo in meno!

Poi, però, ci penso ancora un po' e ti ricordo con gli occhi striati di verde - i tuoi - che si facevano rossi perché si riempivano di lacrime che tu ricacciavi indietro, con dignità, per non inciampare nelle stonature.
“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma" (Lavoisier).

martedì 5 febbraio 2019

Sanremo #serata1


Come spiegare perché anche quest’anno, anche stasera, come da quasi 30 anni (perché qualche anno di spazio per la consapevolezza alla mia età lo devo pur lasciare), sono davanti alla tv a vedere Sanremo? La risposta è semplice ed è un tormentone. Perché Sanremo è Sanremo.

Mentre scrivo, pochi istanti fa Claudio Baglioni ha chiesto a Giorgia se tra le sue canzoni – dopo tanti anni di concerti ed esibizioni e di riproposizioni dei suoi brani, alcuni ripetuti più degli altri – se qualcosa l’ha stancata, annoiata, a tratti infastidita. E si, qualcosa ha stancato anche Giorgia. Eppure nonostante ciò, quando Claudione ha attaccato al pianoforte “Come saprei” e questa canzone che si perde nella notte dei tempi della Giorgia sanremese ha preso il volo, ancora una volta è stata tutta nuova. Perché Sanremo è un po’ come una festa comandata: arriva ogni anno, a cadenza più o meno fissa, ed è sempre uguale a se stesso eppure sempre nuovo. Un rituale cultural-laico atteso, dove tutti sono direttori artistici e un poco anche dirottatori, dove nessuno lo guarda e poi apri Facebook e te lo ritrovi invaso da foto e screenshot e commenti. Come la Nazionale e le analisi politiche da bar.

Un anno fa ero a Sanremo e in quel calderone che è la piazza sanremese ho visto da vicino quello che si muove attorno alla “kermesse” canora più famosa d’Italia (marò fatemi usare kermesse che fa tanto critico musicale accreditato!). In quel carrozzone c’è un mare magnum di cose e genti varie, un bestiario medievale con persone, personaggi e caricature che saturano marciapiedi e strade e aiuole. In questa settimana di lustrini e paillettes mi immergo ogni anno senza stancarmi, anche se è una cosa futile, o forse soprattutto per questo. 
Quest’anno il Festival di Sanremo è lontano molti km e due nazioni da me e l’ho atteso con una partecipazione diversa, con l’entusiasmo della prima volta “da qui”, anche se certe cose non sono cambiate: i commenti divertenti e divertiti sui social, che si fanno luoghi di condivisione; l’ironia dei folli membri del gruppo ‘a famigghia su Whatsapp, che regalano perle di umorismo da pancia in mano e stoccate da standing ovation; le corse al bagno durante la pubblicità; la fase accoccolamento da plaid con tanto di leggera pennica tra fine serata e inizio Dopo Festival. Perché Sanremo è un appuntamento che si è fatto e si fa memoria e tradizione, passato condiviso, storia comune. A queste consuetudini si stanno aggiungendo nuove tradizioni strasburghesi, fatte di aneddoti, cose da fare, persone con cui ridere e condividere, Baglioni cantanti da attendere e cicchetti da trangugiare. E poi, come dice Elvis, a tutte le latitudini Claudio Santamaria merita sempre un “Mammarocarmen!”.

Comunque, come scrivevo lo scorso anno, per fortuna Favino c’è!

Stasera hanno cantato tutti: non ci sono i giovani delle Nuove Proposte – anche se molti tra i cantanti in gara sono indipendenti e ai più sconosciuti –, non ci sono canzoni memorabili ma 4-5 buone e alcune da riascoltare. Mi è piaciuto sicuramente Daniele Silvestri, molto orecchiabile e simpatica Arisa (l’unica ottimista sul palco), bene Renga e Negrita e Cristicchi. Commento a parte #1 per Patty-Avatar-Pravo, che pure se inguardabile è sempre unica (a me, m piac!). Commento a parte #2 per Briga, una carica notevole di “Mammarocarmen”.

Ah comunque, come dice Arisa: mi sento bene.

Mano nella mano

All’improvviso una mano afferra la mia nel tentativo di placare il panico e, mentre mi giro, vedo due occhi fermi e rassicuranti, dritti nei...