domenica 28 gennaio 2018

Mumble rumble su digestione, fatica, gravidanze, lavoro non retribuito

Capita che in un pranzo di fine gennaio quasi febbraio, mentre il “morzo” di pane casereccio inzuppato nella scarpetta del sugo dei ziti spezzati domenicali viene accolto festante dai succhi gastrici e la fetta di anguria nana mi fa l’occhiolino (e, sì, ho ceduto)... e non vi sto a dire i dolci che le mani sante e venerabili di mia madre casalinga hanno preparato... capita che in questo contesto di poesia meritata – perché il settimo giorno anche il Padreterno si è riposato e ha goduto della meraviglia che lo circondava – capita che il morzo rischi di andarti storto e la fresca liquefazione zuccherosa dell’anguria di traverso.

Perché certe cose fanno l’effetto di una digestione attiva e di un peso fastidioso che per mandarlo via ci vorrebbe una cospicua quantità di citrosodina, di biochetasi o di qualsiasi cosa effervescente – all’uso, anche un bel bicchiere di Coca Cola molto gasata – che poi, si sa quale sia l’immediato effetto che produce. Ecco, mentre pensavo a tutto questo e intravvedevo in una emissione di aria gastrica una degna risposta ai miei mumble rumble, ho pensato: ma fa che ci stanno tanta sciemi che scrivono, mo due cose le scrivo pure io e ammèn.



Mentre passeggiavo tranquillamente su quella piazza di paese che è l’homepage di Facebook mi imbatto in un titolo stupefacente de Il Fatto Quotidiano, con una foto di Vittorio Feltri e una sua dichiarazione di senso che fa: Donne, se fate figli è un problema vostro ed è giusto che vi sottopaghino. L’interessante articolo del Fatto, scritto dalla giornalista Elisabetta Ambrosi (una che, leggendone parole e biografia, ha una testa niente male), riporta questa succulenta notizia, una di quelle che sbanca già dal titolo, promettendo argomentazioni al vetriolo. La collega – ah, si, anche io sono giornalista, di quelle pagate poi vedremo come ma sempre giornalista – scrive con una tale precisione e ironia che basterebbe condividere il suo, di articolo, e tutti potremmo dirci soddisfatti. Eppure nel corso degli anni ho capito che dire le cose, dirle con dati oggettivi e una testimonianza autentica, è importante e interessante perché chi legge si riconosca nelle parole e impari a dare aria alla bocca o tastiera alle dita e cacciare la “propria” di verità.


E così, mentre dal mio sud salernitano sento in sottofondo la quiete domenicale e qualche rumore natural-faunistico del vicino mare, penso a questo distinto signore del nord, nativo di Bergamo (chissà se alta o bassa), che magari oggi che è domenica ha coltivato l’orto di cui parla nel suo articolo.

Che poi l’orto è legato al ciclo della vita: che senso avrebbe metterlo a nuovo, nutrirlo, renderlo fertile se non per coltivarlo e raccoglierne i frutti che il ventre della natura – chissà se quella che coltiva Feltri è matrigna o benigna – vorrà offrire all’uomo al termine di un tempo di gestazione di quella terra pur fecondata da un seme.


Il fatto è riduttivamente questo: se le donne vogliono fare figli è giusto che non siano pagate o sottopagate rispetto agli uomini, che intanto lavorano; e, in linea di principio, la disparità di trattamento lavorativo è giusta per tutta una serie di – noiose – conseguenze di quanto sinteticamente scritto il rigo di sopra. Non vi starò a fare la ricerca della causa di questa disparità, potremmo arrivare ad Adamo ed Eva e dire che sì, alla fine, Eva è stata una malamenta perché se si fosse fatta i fatti suoi, il serpente, e la mela, e partorirai con dolore, etc etc.

Ora, capita anche che questo articolo faccia breccia nella mia capoccia e nelle mie riflessioni in un tempo in cui ho approfondito una serie di questioni legate alle tematiche gender a 360 gradi. Insomma, vorrei dire al distinto direttore Feltri che la questione cambio sesso, con pene al posto della vagina e tutto quello che ne consegue, non è proprio una passeggiata. E no, proprio no. Ahi ahi, signor Feltri, lei mi cade sull’uccello.

Iniziamo dall’inizio così iniziamo per bene.

Caro direttore Feltri, sono stata per 8 anni redattrice: prima di continuare, devo necessariamente aprire una “parente”. Le parlo di 8 anni perché ufficialmente non posso parlare di quegli anni in cui, da giovanissima, per fare la gavetta che lei dovrebbe conoscere molto bene, accettavo di scrivere senza essere pagata ma offrire inconsapevolmente il compenso a me dovuto – e firmato – a quanti da scranni posti più in alto di me decidevano cosa fare dei soldi destinati a me. Si sa, la saggezza dei padri.

Dicevo, sono stata redattrice in un lasso di tempo che comprende circa due cicli scolastici, scelga lei se preferisce le elementari e le medie, le medie e le superiori, un ciclo di laurea in medicina con una serie di specializzazioni. “Facci” lei. Un arco di tempo in cui, naturalmente, ufficialmente facevo la redattrice ma dire che facevo l’opera omnia della comunicazione forse – per chi conosce i rivoli immensi che portano acqua a un fiume o i diversi modi in cui si compie e declina la comunicazione – be’, forse renderebbe più chiaro far comprendere la portata del mio dire. 8 anni trascorsi a Roma a fare la prestigiatrice, perché guadagnare quanto guadagnavo io, pagando il dovuto per la sussistenza mensile, e arrivare con dignità a fine mese senza chiedere “l’aiuto da casa”, è una cosa che – mi creda – sa di mago Silvan e David Copperfield (il mago o il bambino, “facci” sempre lei) messi insieme.

Naturalmente, attorno a me non era un gineceo ma un ambiente misto, e anche se non ci si diceva apertamente la quantità della pecunia che – a un certo punto del mese – veniva depositato sui rintracciabilissimi conti correnti, sapevamo che c’era disparità di cifre tra uomini e donne. E, sia chiaro, non parlo tanto per la me dei primi anni, ma soprattutto per quelle generose donne che mi circondavano, che lavoravano instancabili e che si donavano senza lamentarsi.

Devo aprire una parentesi sul “donarsi”. Lei parla di straordinari e di una serie di “plus” che di solito vengono accreditati su uno stipendio base. Gentile direttore Feltri, le cose non stanno così: molti italiani oltre ad essere spesso banderuole a vento, sognatori, un po’ coglioni, partitari e pastasciuttari (sia chiaro, lo dico a metà tra l’amaro e il romantico perché io, nonostante tutto, amo il mio Paese), gli straordinari li conoscono poco. Io, ad esempio, pur avendo lavorato fino alle tre di notte, non ho mai conosciuto l’equivalente monetario di un concetto – quello di straordinario – che pur praticavo in termini di ore di lavoro.

Ora capita che gli anni passino, e i carichi e le responsabilità di lavoro aumentino, eppure lo stipendio resti uguale. Come ben sa, abbiamo una serie di primati in Italia in termini di tassazioni et varia et similia, motivo per cui può facilmente comprendere l’inflazione che uno stipendio basso accumuli nel tempo e, con esso, la qualità della vita che si può condurre. Sa, nonostante questo ce la si fa, ma solo grazie alla dignità. In questi anni mi sono trovata anche a introdurmi anagraficamente – e lo sono ancora – in quella fase di vita in cui attorno a te le coetanee primipare e oltre si moltiplichino, e intanto la tua vita va avanti. Poi capita, come a me è capitato, che questa possibilità su cui lei ha ampiamente argomentato, sparisca immediatamente e, niente, non è possibile poter passare dalla parte della barricata di chi fa figli biologici, va in maternità e deve leggere queste sue parole e provare nausea da gravidanza e da lettura. Lavorativamente parlando, quindi, pur non facendo pipì in piedi o mostrando lunghezze nelle docce delle palestre – al più, un po’ di pancetta e cellulite – sono paragonabile a un uomo nella possibilità di restare sul posto di lavoro. E, creda, sfido qualsiasi uomo a mantenere ritmi, stress, ansie altrui, qualità, quantità, rotture di coglioni, uteri maschili retroversi, che ho dovuto reggere io e portare a casa il lavoro che ho fatto. Nonostante tutto, pur non avendo con me l’utero del contendere, non sono stata degnamente gratificata remunerativamente e non solo. E dire che non sono neanche femminista.

Sa qual è il fatto, egregio direttore Feltri, il problema è che certe parole vengano da menti intelligenti come la sua – sede di opinioni non condivisibili, ma pur sempre intelligente –, aprendo il varco a pensieri e convinzioni altrui che fanno male a tanti, troppi. E non solo alle donne che portano avanti gravidanze, che cercano di far quadrare i conti, che magari portano a casa l’unico stipendio perché il marito è stato esodato o non ha un lavoro fisso o tanti altri casi, “facci” sempre lei –. Il problema è che il suo pensiero di uomo intelligente, capace di intelligere tra le righe, e di uomo di cultura permette, a tante persone di dire che “dovresti ringraziarci perché in tempo di crisi ti paghiamo addirittura lo stipendio e la gente fuori bussa e non sai che ti sostituiamo subito etc etc”.

Egregio direttore, ho una sorella sposata che vive Oltralpe e che, durante la gravidanza, ha conosciuto il welfare state francese verso le famiglie che si apprestano ad accogliere una nuova vita. Lo stesso welfare che, mentre io lottavo contro una serie di vicissitudini di salute e contro uno stato che, ancora oggi, non ha riconosciuto i miei diritti, quello stesso welfare la sosteneva perché in sé portava il segno di una vita nuova che andava accolta e, mia sorella, non mortificata come produttrice seriale di giovani forze destinate a pagare con il proprio giovane i contributi di canuti ex lavoratori che – giustamente – vogliono riscuotere la propria pensione.

Egregio direttore, non ho figli da offrire la bene comune della previdenza sociale ma mi auguro che, nonostante le sue parole, le donne che vorranno continuino a fare figli.


Che poi, si sa, è un po’ come il pallone e la pastasciutta la domenica: noi italiani ci acco
ntentiamo di poche cose. Purtroppo. Ed è su questo gioco perenne di carota e bastone che chi ha la voce più alta continua a farci credere che il pallone e la pastasciutta la domenica siano sufficienti.

La saluto, mentre la stanza è colorata da un sole giallo intenso e arancione, in questo autentico luogo comune di piccola città del sud senza lavoro ma ricca di dignità. 




giovedì 11 gennaio 2018

Itaca. Una nuova partenza, un nuovo viaggio

La porta della mia camera di Roma :)
Salerno, 11 gennaio 2018
Avevo scritto alcune parole poco più di un mese fa, la notte prima di tornare a Salerno, a poche ore dal mio trasloco di rientro dopo 8 anni di vita fuori casa. La mia stanza di Roma, che nel corso degli anni si era arricchita e colorata di segni e passaggi di vita, era spoglia e piena di echi di parole, di risate, di silenzi, di cose sussurrate o dette a gran voce.
Avevo deciso di scrivere per fermare su un foglio, seppur elettronico, quello che con grande immediatezza e fluidità di pensiero si stava dipanando dentro di me. Pensavo di avere scritto pensieri confusi, che la stanchezza e tutto il resto avessero calato una nube di imperscrutabilità, e invece no. Ho impiegato più di un’ora per ritrovare quel file e proprio mentre credevo di non poter rileggere quelle parole, sono ricomparse. E devo dire che, nonostante il limbo, tutto era molto più chiaro di quanto pensassi.

Roma, 29 novembre 2017
h. 00.30

Stanotte si va a braccio. Non che di solito ci sia un canovaccio nei miei pensieri: arrivano, a volte con un garbato “toc toc”, a volte in modo irruento, e si fanno strada nella mente, tra i tasti del computer, in una corsa digitale per stare dietro al fiume in piena di cose da provare a fermare attraverso le parole.
8 anni fa avevo deciso di partire: la laurea era un fatto recente, la prospettiva del primo lavoro post università era quasi una certezza e così, mentre iniziava ufficialmente la crisi economica, io entravo nel mondo del lavoro. 8 anni sono molti, ci stanno dentro due anni bisestili – se il conto è fortunato anche 3 – un ciclo di scuola materna ed elementare, o anche elementare e medie; le superiori e la laurea triennale in tempo record. In 8 anni stanno dentro incontri, frequentazioni, conoscenze, decisioni, innamoramenti, delusioni, grandi amori. In 8 anni ci sta tutto e il contrario di tutto – perché di certezze ce ne sono poche e “del diman”, del resto, si sa.

Ricordo come se fosse ieri un pomeriggio di the, cioccolata calda e biscotti tra amiche, una piacevole e confortevole parentesi di calore umano e affetto autentico prima di andare via. Ero forse Ulisse? Non lo so. Tra gli affetti che mi sono stati sempre vicini potrei riscontrare diverse forme di Penelope pronte ad attendere il mio ritorno. Di certo mi sono sempre sentita Jo, l’irrequieta protagonista di quelle Piccole donne che hanno segnato la mia crescita. Suo e mio è il sentire la necessità di buttare fuori quel mondo che pulsa dentro, di respirare, di andare oltre, di non sostare, di non stare nello stesso posto per troppo tempo, alla ricerca di qualcosa che ha bisogno di tempo per farsi conoscere, per farsi trovare.

Sono partita consapevole che avrei avuto di fronte a me mari da attraversare e città da conoscere, peripezie da vivere e difficoltà da affrontare. Ho camminato verso la mia Itaca andando a tentoni, tastando quanto mi circondava, provando a prendere le misure; fidandomi, a un tratto, del mio senso di orientamento, tra qualche cosa fatta bene e qualche caduta. Non rinnego nulla di questi 8 anni, nemmeno una decisione, anche se ora non vivrei tutto allo stesso modo. Guardo alla me che 8 anni fa ha iniziato un cammino e provo a fermarmi un attimo. C’è bisogno di prendere un grosso respiro perché l’approdo di oggi non è facile. Non è stato semplice decidere di rimettersi in viaggio, di ricominciare daccapo, di ripartire dal via anche se questo non è il gioco dell’oca o un passaggio del Monopoli e tanto meno ci sono alberghi costruiti a Piazza della Vittoria.

Quel pomeriggio, prima di ricevere le mie amiche, preparai per ciascuna di loro un piccolo rotolo di carta d’Amalfi con inscritta una poesia. L’avevo letta un po’ di tempo prima e mi era piaciuta. Lo so che Itaca mi dona il viaggio, la possibilità di cucirmi addosso le esperienze. Una persona saggia stasera mi ha detto: “I cambiamenti non sono mai facili, ma portano una ventata di aria fresca”.

Ogni volta che leggo la poesia di Konstantinos Kavafis sono grata a queste parole, a Itaca, al suo mito: per questa spinta indomita che mi dà la forza di preparare il mio bagaglio e rimettermi in viaggio.

Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
nè nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti - finalmente e con che gioia -
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca -
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare. 

Mano nella mano

All’improvviso una mano afferra la mia nel tentativo di placare il panico e, mentre mi giro, vedo due occhi fermi e rassicuranti, dritti nei...