venerdì 16 luglio 2021

Campo degli angeli

Al Cimitero comunale di Salerno c’è un settore che si chiama “Campo degli angeli”, ed è da lì che comincio ogni volta il mio cammino tra le storie che vi sono custodite. Penso di avere avuto poco più di dieci anni la prima volta che mi ci sono recata, ero con mia nonna Vincenza e andavo a trovare mio nonno materno, suo marito, e una figlia della cui esistenza solo in quel momento, davanti alla foto incastonata nel marmo, venivo a conoscenza fino in fondo. Quella bambina addormentatasi all’età di undici mesi per non svegliarsi più è la spina nella carne che si è infilata sottopelle, restando lì a infiammare con ondate di dolore, per ricordarmi della sua esistenza. Più passava il tempo, più crescevo, più vedevo in quella foto una sorella minore, una zia rimasta bambina, una figlia mancata troppo presto. Mentre il tempo camminava lasciando segni di nuove consapevolezze, in quella foto di bimba si condensava il dolore più grande della vita, e io che intanto aggiungevo tempo su tempo al computo dei miei anni, cercavo di capire come si potesse sopravvivere a una figlia.

In quel Campo degli angeli ci sono tanti bambini, e dopo molti anni ancora mi si smorza il fiato mentre passo tra lapidi che hanno più dei miei anni, issate quando io non ero neanche un pensiero pensato. Pezzi di pietra che sono stati eretti mentre c’era il boom economico, il Sessantotto, gli anni di piombo. Alcuni di quei visi negli anni mi sono diventati familiari: erano già lì quando a mio nonno si sono aggiunti mia nonna e poi mio zio, suo figlio, come se li avessero accolti.

Tra i viali li guardo, lo faccio con tutti i volti che vedo affacciarsi di fianco a me, e non posso fare a meno di pensare a tutte le storie che sono racchiuse dietro quelle foto. Ad esempio, penso a quando andavano dal panettiere o in spiaggia, quando si preparavano per una festa o per il loro compleanno, quando andavano dal parrucchiere o facevano una passeggiata con un amico. Penso a una vita in movimento che stona con quel luogo, dove la quiete e il cinguettio degli uccelli e l’odore intenso di fiori sono un tutt’uno indescrivibile ma chiaro e lampante per chi ha varcato almeno una volta quel cancello, per camminare tra le tombe.

Ogni tanto mi fermo davanti a queste foto, faccio il calcolo degli anni, e a volte vedo volti giovani di persone andate via in età anziana ma che hanno scelto di affidare l’imperituro ricordo a un aspetto giovanile, come se la morte si importasse di quante rughe ci fossero sui volti che ha accarezzato.


Ho sempre la sensazione di un nodo in gola, anche per quelle storie che in fin dei conti non mi appartengono, perché penso che ciascuna delle persone che ha affidato alla terra la custodia del proprio corpo meriti di aver avuto qualcuno che ne abbia rimpianto la vita almeno per un attimo. Ci pensano poi il vento, la pioggia, la salsedine, lo scorrere del tempo a lasciare un segno del proprio passaggio anche sulla pietra. Ed è proprio a quelle pietre solcate dal tempo che guardo con maggiore tenerezza, pietre che forse non hanno più mani calde che possano custodirle, accarezzarle, ricordarne il motivo. Nel mio recente passaggio gli occhi si sono soffermati su ciò che resta di una delle lapidi del Campo, non c’è foto né nome, resta solo un angelo di pietra: l’ultimo custode di un tempo, forse, troppo lontano per essere ricordato.

Mano nella mano

All’improvviso una mano afferra la mia nel tentativo di placare il panico e, mentre mi giro, vedo due occhi fermi e rassicuranti, dritti nei...