Al Cimitero comunale di Salerno c’è un settore che si chiama “Campo degli angeli”, ed è da lì che comincio ogni volta il mio cammino tra le storie che vi sono custodite. Penso di avere avuto poco più di dieci anni la prima volta che mi ci sono recata, ero con mia nonna Vincenza e andavo a trovare mio nonno materno, suo marito, e una figlia della cui esistenza solo in quel momento, davanti alla foto incastonata nel marmo, venivo a conoscenza fino in fondo. Quella bambina addormentatasi all’età di undici mesi per non svegliarsi più è la spina nella carne che si è infilata sottopelle, restando lì a infiammare con ondate di dolore, per ricordarmi della sua esistenza. Più passava il tempo, più crescevo, più vedevo in quella foto una sorella minore, una zia rimasta bambina, una figlia mancata troppo presto. Mentre il tempo camminava lasciando segni di nuove consapevolezze, in quella foto di bimba si condensava il dolore più grande della vita, e io che intanto aggiungevo tempo su tempo al computo dei miei anni, cercavo di capire come si potesse sopravvivere a una figlia.
In quel Campo degli angeli ci
sono tanti bambini, e dopo molti anni ancora mi si smorza il fiato mentre passo
tra lapidi che hanno più dei miei anni, issate quando io non ero neanche un
pensiero pensato. Pezzi di pietra che sono stati eretti mentre c’era il boom
economico, il Sessantotto, gli anni di piombo. Alcuni di quei visi negli anni
mi sono diventati familiari: erano già lì quando a mio nonno si sono aggiunti
mia nonna e poi mio zio, suo figlio, come se li avessero accolti.
Tra i viali li guardo, lo faccio
con tutti i volti che vedo affacciarsi di fianco a me, e non posso fare a meno
di pensare a tutte le storie che sono racchiuse dietro quelle foto. Ad esempio,
penso a quando andavano dal panettiere o in spiaggia, quando si preparavano per
una festa o per il loro compleanno, quando andavano dal parrucchiere o facevano
una passeggiata con un amico. Penso a una vita in movimento che stona con quel
luogo, dove la quiete e il cinguettio degli uccelli e l’odore intenso di fiori
sono un tutt’uno indescrivibile ma chiaro e lampante per chi ha varcato almeno
una volta quel cancello, per camminare tra le tombe.
Ho sempre la sensazione di un
nodo in gola, anche per quelle storie che in fin dei conti non mi appartengono,
perché penso che ciascuna delle persone che ha affidato alla terra la custodia
del proprio corpo meriti di aver avuto qualcuno che ne abbia rimpianto la vita almeno
per un attimo. Ci pensano poi il vento, la pioggia, la salsedine, lo scorrere
del tempo a lasciare un segno del proprio passaggio anche sulla pietra. Ed è
proprio a quelle pietre solcate dal tempo che guardo con maggiore tenerezza,
pietre che forse non hanno più mani calde che possano custodirle, accarezzarle,
ricordarne il motivo. Nel mio recente passaggio gli occhi si sono soffermati su
ciò che resta di una delle lapidi del Campo, non c’è foto né nome, resta solo
un angelo di pietra: l’ultimo custode di un tempo, forse, troppo lontano per
essere ricordato.