Il 29 maggio 2019 avevo messo
nero su bianco il mumble mumble che mi aveva fatto compagnia durante e dopo la
lettura del libro “Per dieci minuti” di Chiara Gamberale. Per qualche ragione
queste parole erano rimaste in una cartella del mio computer ma da qualche
giorno sono tornate in mente e, sinceramente, non ricordavo bene cosa avessi
scritto.
Così stasera, mentre la Bignardi metteva fine all’Assedio sul 9, mi sono messa a spulciare tra le cartelle alla ricerca degli appunti di una vita “AC, Ante Covid” – come commentava stasera mia cugina Rossella in una lunga e interessante video chiacchierata. Appunti di vita un anno dopo il mio arrivo a Strasburgo e un anno prima della riapertura della prima ondata da coronavirus, che a pensarci mi sembra tutto ben più lontano nel tempo.
Mentre leggevo le mie parole di
diciotto mesi fa ho pensato che oggi questi brevi dieci minuti non saprei come
impiegarli nel fare qualcosa di non fatto, perché in questo tempo rallentato,
ma anche fermo, dieci minuti di novità io sinceramente non riesco a trovare
come impiegarli. Allora ho pensato che quei dieci minuti oggi sono necessari,
per me, per cercare di trovare un angolo di tranquillità, un tempo di distacco
da quanto sta accadendo per non restarne paralizzati. Un libro, un film, la
musica, un quaderno su cui appuntare i pensieri, parlare con qualcuno,
ascoltare il silenzio.
Poi però rileggo le parole del 29 maggio 2019 e mi faccio la stessa domanda della protagonista:
“E poi? …Alla fine cosa si vince? Riavrò indietro la mia vita?
29 maggio 2019
Dieci minuti al giorno per levare
le paranoie di torno. Dieci minuti al giorno per decostruire palizzate di
certezze andate a male, su cui si inerpica quella muffa che rende tutto molle e
destinato a deteriorarsi. “Per dieci minuti”, di Chiara Gamberale edito da
Feltrinelli, è uno dei regali che ho trovato sotto l’albero dello scorso
Natale: un libro con dedica, meditato, con una sua ragione d’essere nelle
intenzioni dell’autrice e di chi lo ha scelto per me. Una storia romanzata con
un fondo di verità, nata dall’esperienza della Gamberale che, per un mese, ha
sperimentato in prima persona l’arte dei “dieci minuti” dedicati ogni giorno a
fare qualcosa che non si è mai fatta e che mai si penserebbe di fare. Dieci minuti
di lotta per l’indipendenza di quell’io profondo sepolto sotto strati di
abitudini e personalità modellata da anni di attività umana e relazioni
interpersonali.
Della Gamberale avevo letto un solo libro, “La zona cieca” (Feltrinelli), che mi aveva innervosita per tutto il tempo per l’atteggiamento della protagonista – Lidia – e per il senso di fallimento e di bruttezza che possono esserci nelle relazioni sentimentali e nella percezione della propria dignità dinanzi a un amore – quello per Lorenzo – che diventa brutto, brutto davvero. Ho letto con grande curiosità e con un piccolo senso di sfida “Per dieci minuti”, avevo bisogno di far riprendere la me lettrice e di farla riconciliare con la bella scrittura della Gamberale, che costruisce mondi in cui l’identificazione è questione di pochi secondi per quanto tutto appaia vivido.
«Scrivere — ha raccontato l’autrice
in un’intervista al Corriere — è l’unico rimedio che ho trovato per sopportare
l’esistenza. Una vocazione autentica… Da bambina complicata, l’unica forma di
appagamento e pace era ascoltare storie. Poi ho imparato a leggere... Scrivere
è sempre stato il mio modo di stare al mondo. Di resistere all’esistenza: di
capirla».
Nel mentre e dopo aver terminato
la lettura, ho cominciato a interrogarmi su questa storia esperienziale, sulle
manie, sulle abitudini, su quelle piccole certezze che se da un lato ci aiutano
nel caos quotidiano, d’altro canto possono rivelarsi delle gabbie dorate in cui
ci confortiamo, senza andare al di là, senza scrutare oltre il limite che ci
siamo precostituiti, con molteplici “senza” e nessun “con”.
I miei primi “dieci minuti” sono
iniziati un sabato sera di metà gennaio in un locale di Strasburgo, a tarda
serata, con una venezuelana e una spagnola come elementi di disturbo della mia
normalità che, con estrema semplicità, hanno alzato il mio sguardo oltre un
orizzonte certo. Un esercizio di piccoli passi messi uno dopo l’altro per
modificare l’andatura e, se dovesse andare bene, la direzione. Una nuova
chiacchierata, uscire prima da lavoro e pranzare fuori con una collega,
mangiare libanese per la prima volta (e scoprire di amarlo profondamente),
andare al cinema e vedere per la prima volta un film in lingua originale con
sottotitoli in una lingua che non è la tua…
Il percorso di Chiara, la protagonista del libro, non è per nulla semplice e porta al cambiamento, a quelle conseguenze da cui non è possibile tornare indietro. Come la sforbiciata dei ricci capelli di Ato, la decisione di adottare, la scelta di cambiare casa. Una complessità che diventa tale nelle sue propaggini e che, invece, nasce da una cosa semplice, da una proposta:
“Le va di fare un gioco? Per un mese, a partire da subito, per dieci minuti al giorno, faccia una cosa che non ha mai fatto”
“E poi? …Alla fine cosa si vince? Riavrò indietro la mia vita?”
“Ne riparliamo fra un mese… Intanto giochi, si impegni e non bari, mi raccomando”
“Non avevo niente da perdere… è diventata la mia occasione per provarci”.