Una mano sull’altra. Un gesto che ha tanti significati e che ricordo di aver impresso negli occhi e nella memoria sin da anni a due cifre e tre decadi fa.
Sul volo da Napoli a Basilea un uomo e una donna sono seduti accanto a me. Lui straniero, forse tedesco, lei probabilmente italiana o masticatrice della mia lingua. La mano di lei su quella di lui, i motori che vanno veloci per raggiungere quel rombo forte da ruote in velocità crescente fino a far staccare da terra quel grosso aggeggio che conteneva circa 160 storie. È proprio negli istanti immediatamente precedenti al distacco delle ruote da terra che la pressione delle mani si fa più forte, mentre le dita un po’ sbiancano, come succede quando si stringe qualcosa, qualcuno. Sul volto di lui un’espressione vitrea, di evidente paura; sul volto di lei una pace rassicurante, il tentativo osmotico di far passare un po’ di serenità attraverso quei canali di mani.
Lungo le strade di Strasburgo una madre posa la sua mano su quella del suo bambino. La prende, le sfugge – perché il desiderio di corsa e libertà sono un istinto irrefrenabile all’uscita da scuola – poi la riprende. Quella mano grande che stringe la mano piccola è un porto sicuro, una bussola esatta, la stella polare dell’esserci.
In una sala da ballo poco fuori Illkirch mani si prendono per mano e danno vita alla danza. Sono mani allenate, mani leggere, mani che si accolgono e si guidano vicendevolmente, in un’armonia di movimenti e leggiadria di cuori. In quella sala da ballo una mano prende la mia tra le mani. È una mano sconosciuta, appartengono a occhi sorridenti e sorriso rassicurante, pronti ad accogliere il terrore dei miei occhi e la paura del mio corpo. Sono mani esperte. Mi rasserenano, mi guidano e mi accompagnano. Si prendono cura di me.
Sul volo da Basilea a Napoli un uomo e una donna sono seduti al mio fianco. Sono stati giorni di occhi pieni e pensieri nebulosi, di riflessioni e fardelli, di gioie e corse e risate, di pizzicotti amorosi e abbracci e baci e parole straniere. La testa e il cuore non si accordano e guardo queste mani ma non le vedo. Mi ci vuole un volo quasi completo, una dormita, un risveglio, una stiracchiata e un po’ di perturbazioni per capire. Sono le mani di un uomo e di una donna che hanno lasciato la loro terra, hanno iniziato una nuova vita in una terra lontana, hanno seminato e accudito il frutto di tanto faticare. Sono le mani di un uomo ottantenne con il cuore di un giovane, di una donna piccola e dal sorriso discreto che ha custodito il segreto di un amore restando sempre un passo indietro consapevole di essere, invece, alla guida poco più avanti. Sono mani che si sono mosse per articolare storie e ricordi, città e paesi, figli e amici, a me che ero seduta lì vicino. Sono mani che si prendono cura e che custodiscono una lunga storia.
“Take care”: mi piace questo verbo che dice “stai attento” per dire più comunemente “prenditi cura”, perché la cura per qualcosa, per qualcuno, si concretizza nell’attenzione donata.
Poi ci sono le mani piccole piccole che si prendono per mano. Sono sogni teneri e speranze delicate.
Lungo le strade di Strasburgo una madre posa la sua mano su quella del suo bambino. La prende, le sfugge – perché il desiderio di corsa e libertà sono un istinto irrefrenabile all’uscita da scuola – poi la riprende. Quella mano grande che stringe la mano piccola è un porto sicuro, una bussola esatta, la stella polare dell’esserci.
In una sala da ballo poco fuori Illkirch mani si prendono per mano e danno vita alla danza. Sono mani allenate, mani leggere, mani che si accolgono e si guidano vicendevolmente, in un’armonia di movimenti e leggiadria di cuori. In quella sala da ballo una mano prende la mia tra le mani. È una mano sconosciuta, appartengono a occhi sorridenti e sorriso rassicurante, pronti ad accogliere il terrore dei miei occhi e la paura del mio corpo. Sono mani esperte. Mi rasserenano, mi guidano e mi accompagnano. Si prendono cura di me.
Sul volo da Basilea a Napoli un uomo e una donna sono seduti al mio fianco. Sono stati giorni di occhi pieni e pensieri nebulosi, di riflessioni e fardelli, di gioie e corse e risate, di pizzicotti amorosi e abbracci e baci e parole straniere. La testa e il cuore non si accordano e guardo queste mani ma non le vedo. Mi ci vuole un volo quasi completo, una dormita, un risveglio, una stiracchiata e un po’ di perturbazioni per capire. Sono le mani di un uomo e di una donna che hanno lasciato la loro terra, hanno iniziato una nuova vita in una terra lontana, hanno seminato e accudito il frutto di tanto faticare. Sono le mani di un uomo ottantenne con il cuore di un giovane, di una donna piccola e dal sorriso discreto che ha custodito il segreto di un amore restando sempre un passo indietro consapevole di essere, invece, alla guida poco più avanti. Sono mani che si sono mosse per articolare storie e ricordi, città e paesi, figli e amici, a me che ero seduta lì vicino. Sono mani che si prendono cura e che custodiscono una lunga storia.
“Take care”: mi piace questo verbo che dice “stai attento” per dire più comunemente “prenditi cura”, perché la cura per qualcosa, per qualcuno, si concretizza nell’attenzione donata.
Poi ci sono le mani piccole piccole che si prendono per mano. Sono sogni teneri e speranze delicate.