domenica 11 marzo 2018

Contenitori vuoti e stadi pieni


Questa vittoria è per e tutti quelli che lo hanno amato.
Per sempre
Ci sono giorni che nascono strani. Iniziano nel cuore della notte in un momento non sempre riconoscibile o identificabile, in un ante e post quam indecifrabile, e poi partono. Partono mentre stai facendo qualcosa o niente, mentre stai tornando a casa o stai uscendo. Partono mentre hai appena dato o ricevuto la più bella notizia possibile; partono mentre sta mettendo radici la bellezza o la tristezza, la verità o la menzogna, il giusto o ciò che giusto non è.

Stanotte ho chiuso la porta di casa molto tardi. In quel momento ho guardato l’orologio e ho pensato: chissà a che ora è accaduto.

Una settimana fa, mentre al mattino sprimacciavo occhi e viso che ancora avevano la forma del cuscino, mentre il cellulare si riattivava e le voci digitali del mondo bussavano al mio telefono, una notifica cancella ogni traccia di sonno. La morte di Davide Astori, calciatore e capitano della Fiorentina.

Era domenica e a casa eravamo con la testa ai fatti della domenica: il default erano i campi di calcio, il pre partita, i rituali, gli ultimi aggiornamenti del Fantacalcio di mio fratello e tutte le risate che nomi impossibili di quasi-squadre di una realtà fantavera possono far nascere. Ma era soprattutto “la” domenica, quella attesa da mesi, forse da anni, di elezioni che sanno di tutto e di niente, di risultati scontati ma anche no, di una politica che aveva provato a entrare per mesi nelle nostre casi per farci venire la voglia di uscire da casa e andare nelle scuole, nelle sezioni, nelle cabine elettorali e mettere il segno della croce su un destino da provare a costruire.

Io quella notte mi sono interrogata sul mio voto, su come esprimerlo – perché io ho sempre pensato di volerlo esprimere un voto, vero o nullo che possa essere –, mi sono chiesta verso chi esprimerlo. Nel vuoto megagalattico della politica italiana – si, c’è un gran vuoto riempito da chiasso e volgarità – io quella notte ho deciso a chi dare la mia delega a sedersi sugli scranni dei luoghi in cui si (dovrebbe) fa(re) l’Italia. E niente, io la testa la tenevo lì, ed era una testa appesantita perché questa volta, più di altre, scegliere cosa-chi votare è stata dura.

Quel risveglio lo vivo al rallentatore, anche ora mentre scrivo e ricordo e rivivo, e la scena è chiara. Ovatta è scesa nelle orecchie, tutto si è attutito. Per me, ma non solo. Quel giorno, mentre da Udine si rincorrevano notizie, il silenzio calava nel chiassoso mondo calcistico. “Che strano”, avevamo pensato a casa quando iniziava a girare la notizia del rinvio della giornata di calcio, “chissà cosa è accaduto. Probabilmente hanno scoperto una combine e avranno deciso di fermare tutte le partite per evitare strani giri di risultati”. Questo il mio pensiero del “prima”, perché il calcio che tanto mi piace – come la politica – mi appassiona ma non è per niente limpido. E invece, purtroppo, quella mattina era tutto troppo chiaro. Nessuna partita truccata, nessuna scommessa. Uno strano scherzo del destino, un tiro mancino, un risveglio tragico – per chi, quel giorno, ha aperto gli occhi.

Quando muore un giovane si interpella la natura. “È contro la natura”, diceva mia nonna, “i padri non seppelliscono i figli”. È un dolore che è un nodo che toglie via l’aria, quello che blocca la vita e il respiro di un genitore che sopravvive a un figlio.

Quanti sono i figli che muoiono ogni giorno? Quante sono le tragedie che si consumano, che si perpetrano, sotto i nostri occhi? Sotto occhi conniventi? Sotto occhi impotenti? Quante morti si consumano nel silenzio? Taciute? Solitarie? Dimenticate? Tante, troppe, inenarrabili. Forse non basterebbero righe e quadretti dei fogli del mondo, non si starebbe sulla notizia.

Cosa fa di “uno solo” il fulcro di un dolore così grande?

Domenica pomeriggio sono andata alla ricerca della bellezza. Il cielo plumbeo, l’aria ferma, immobile, ho camminato tra i templi di Paestum, in un luogo che racchiude una storia millenaria, che parla di uomini che non ci sono più eppure sono ancora nei massi intarsiati e in quelli smussati dal tempo, nella memoria di ciò che era e nella consapevolezza di ciò che resta. Tra le pietre magnifiche ho scorto espressioni, ho percepito sentimenti. In una colonna ho rivisto i tratti di un uomo, sembrava quasi uno stupore misto a dolore. Qualche giorno dopo, a casa, ho pensato ad Achille, al dolore che gli scompone il viso quando vede Patroclo, l’amico amato, vinto dal sonno della morte. Ho pensato a chi, domenica 4 marzo, ha scorto nel sonno placido di un giovane il volto di un riposo perenne che nulla muta e tutto trasforma.

«e Achille tra loro diede inizio al compianto,
mettendo le mani sterminatrici sul petto del suo compagno,
e gemendo sempre, come un leone dalla bella criniera
al quale un cacciatore ha rapito i cuccioli nella selva fitta,
e lui si angoscia d’esser giunto tardi» (Iliade, XVIII, 316-319).

Questa che si sta chiudendo è stata una settimana di compianto collettivo, iniziata nelle cabine elettorali, protrattasi in una notte di spoglio e spoglie, continuata tra tutte le strade d’Italia che hanno portato a Firenze, per riversarsi poi nelle case, attraverso il canto di aedi 2.0 che hanno parlato di un giovane che ha costruito la vita calciando un pallone in pantaloncini e maglietta, facendosi uomo e restando umano.

Perché la morte di uno, di uno solo tra tanti, ha suscitato un'emozione collettiva così forte?

Tra le tante parole che ho ascoltato mi hanno colpito quelle di un cronista che ha detto su per giù questo: quando li vedi in campo, i calciatori sembrano degli uomini adulti, quasi ingobbiti da spinte e pressioni che hanno una genesi più da S.P.A. che da squadra di calcio, persone di esperienza da inneggiare o contro cui scagliarsi per una partita di pallone. Poi li vedi fuori e sono persone che vivono una vita – molte volte privilegiata – ma che nelle sue fondamenta ha radici comuni a tutti: si nasce in una famiglia, si cresce in una comunità, ci si relaziona con il mondo. Ed è sul campo dell’alterità che ci si gioca la damnatio memoriae o l’immortalità. Di questo ragazzo di 31 anni, passato agli occhi del mondo come difensore con la maglia numero 13, si è scoperto un mondo di bellezza e verità da fare invidia ai fregi del Tempio di Nettuno a Paestum, anni intarsiati di pazienza e dedizione, di onestà e impegno, di senso di responsabilità e serietà, di ironia e leadership – quella vera, frutto di un percorso e non della raccolta dei punti del latte. Non si può definire la vita di un uomo di cui si ha una percezione parziale, ma se come diceva mia nonna “l’albero si vede dai frutti” è proprio il feedback, il riscontro, l’interfaccia emozionale e umano di tutta questa vicenda – al di là di propaggini parossistiche – a dare il senso di questa giovane vita che a un certo punto si è fermata.

Troppe volte, troppo spesso, quasi sempre tra paradosso ed esasperazione, i campi di calcio assurgono a templi delle divinità nostrane, ad agorà pubbliche, a luoghi dove sembra plausibile il passaggio dell’unico senso di vita possibile. Ma ciò che resta nei pilastri intarsiati della vita di Davide Astori parte da una genesi diametralmente opposta. È il figlio educato dai genitori, cresciuto alla scuola di un’alterità allenata nel rapporto tra fratelli, accresciuta e messa in discussione nei diversi spazi della vita comunitaria in cui il rispetto dell’altro non è mai venuto meno, amplificatasi tra spogliatoi e campi di pallone, divenuta a sua volta fonte di educazione nel ruolo – di vita – di padre. È la storia del giocatore che è innanzitutto uomo e la cui morte, proprio per questo, spezza il fiato in gola, accelera il magone, fa sgorgare lacrime. Per una settimana in tv lo share non l’hanno segnato chiacchiere inutili, litigi, scontri, ma il rincorrersi di immagini di vita che esorcizza la morte, di racconti che provano a rallentare il taglio del filo delle Moire inesorabili, di occhi lucidi davvero e non per finta o per necessità.

Il professore di sociologia, all’università, diceva sempre: “è un problema di contenitori. I contenitori sociali sono vuoti, non ci sono più esempi a cui attingere. La politica, le istituzioni, i grandi catalizzatori dell’attenzione civile non esistono più o non hanno più la forza e la capacità di attrarre”. Si cerca di attingere acqua altrove, allora, e non sempre è acqua limpida, il più delle volte è a dir poco stagnante. Il calcio non può essere un sostitutivo, un esempio tout court, ma è senza dubbio un catalizzatore di sogni sin da bambini.

Il dinoccolato Astori – se lo penso bambino, alto così come è, me lo immagino con questa andatura tipica da quello più alto della classe – ha coltivato un sogno, lo ha irrorato di grazia e pazienza, di talento e impegno, senza scorciatoie o facilitazioni e lo ha realizzato, incarnato, vissuto.

Se mi guardo attorno e cerco gli esemplari umani “in potenza” del domani vedo tanti tentativi di aborto, vedo sogni che arrivano a stento a fecondare l’ovulo della determinazione, perché qua la vita si è fatta sterile e la dignità è continuamente calpestata.

Cosa resta dopo di noi? Qual è il lascito di una vita?

In questa settimana sui media, giovedì in Basilica a Santa Croce e in quella grande piazza e sui balconi a Firenze, ieri all’Olimpico a Roma, oggi al Franchi a Firenze: in questi luoghi si sono ritrovati in tanti, con semplicità e spontaneità, senza demagogia, per la morte di “uno solo”. Io me lo chiedo perché “uno” può scatenare tanto e far dire molto: forse c’è una qualità che va oltre la quantità, c’è un silenzio che sa coltivare nel nascondimento più di tante parole urlate, c’è una verità che non può essere elusa. Ed è emersa domenica scorsa, ma non dalle urne.

Il 5 settembre 1989, dopo la morte tragica di Gaetano Scirea avvenuta a causa di un incidente automobilistico, in quella Polonia post elezioni che aveva portato in parlamento l’intellettuale di Solidarnosc Adam Michnik, il giornalista Andrea Tarquini scriveva su Repubblica: «In Polonia la coabitazione passa anche dai campi di calcio, e questo trasforma un lutto dello sport in lutto di tutti».

Ancora torno con la mente alla domanda di stanotte: chissà quando è arrivato il momento che ha reciso il filo del tempo della vita di quel singolo uomo. Chissà quando il silenzio della notte si è fatto silenzio davvero. Chissà se la commozione di una settimana lascerà qualcosa di buono sui campi e nei palazzi del calcio, amato e odiato, osannato e vituperato. E non solo là.

Domani è lunedì e si ricomincia. Il seme che cade e si spacca e muore, per attecchire e portare frutto deve trovare un terreno buono, fecondo, pronto.

Mano nella mano

All’improvviso una mano afferra la mia nel tentativo di placare il panico e, mentre mi giro, vedo due occhi fermi e rassicuranti, dritti nei...